Falstaff di Verdi orchestrato da Daniel Barenboim e messo in scena da Mario Martone. Il teatro, massimo tempio della lirica in tempi Ddr, è stato riaperto da poco, dopo una lunga chiusura di sette anni per lavori. Interamente rifatto, ampliato con camerini, uffici e sale prova in una zona contigua collegata da un passaggio sotterraneo, è stato affidato a un giovanissimo sovrintendente (che succede al grande regista Jurgen Flimm) e alla direzione musicale di Barenboim, che aveva lasciato la Scala quando è andato via Lissner. A Berlino il maestro si è trasferito, ha assunto la responsabilità della rinnovata istituzione musicale (la capitale tedesca ne conta ora almeno cinque o sei) e vi ha posto anche la «mente» della Fondazione creata quindici anni fa con Edward Said, che a Ramallah permette studi musicali di altissimo livello a giovani palestinesi, mediorientali e africani.

Martone aveva già realizzato con grande successo un Falstaff una decina di anni fa, ai parigini Champs Elysées, e ancor prima un laboratorio ambientato nei Quartieri spagnoli dove risaltava la dialettica tra gioventù disposta a tutto e il «cattivo maestro». Questa invece è davvero un’opera della maturità, che il regista conduce, quasi una lettura del mondo, partendo certo dalla «vecchiezza» di Verdi (è la sua ultima opera, nel 1893) e dalla sua disillusione sociale e politica dopo esser stato egli l’acronimo stesso del risorgimento e dell’unità nazionali. Un Verdi ben cosciente della fine del secolo e del suo melodramma, che annusa piuttosto la musica del secolo che verrà. Un secolo con le sue aspirazioni e i suoi fallimenti, dei quali il personaggio di Falstaff appare già consapevole, e portatore non sano.

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Potendo disporre di voce, grinta e fisico straordinari di Michael Volle per il ruolo di protagonista, Martone ne fa il perno drammaturgico dell’intera opera. Il cantante è in grado di passare continuamente come un consumato attore dal fascinoso al burlone, dalla crudeltà alla crapula, dal sessuomane all’alcolista, dalla solitudine al bordello (in tutti i sensi, come si sa). Un grande baritono e interprete, che dispiega del grande vecchio verdiano ogni aspetto, grandezza e miseria, l’eleganza impeccabile e il pensiero profondo. E anche la pancetta, di rigore in Falstaff, che sguscia dalla maglietta nei momenti cruciali. Ma tutto l’ensemble è di alto livello e grande resa, da Barbara Frittoli, Alice di gran piglio, all’innamorato malizioso Fenton di Francesco Demuro, a tutte le «allegre comari» nelle cui trame primeggia autorevole Daniela Barcellona.

Con questa compagnia (e nonostante la direzione di Barenboim preferisca puntare all’antica tradizione italiana delle belle arie in sé concluse), l’andamento che Martone impone allo spettacolo ci rende trasparente quello che il librettista Camillo Boito ha estratto da William Shakespeare. La bettola della dissipazione di Falstaff appare come oggi uno scrostato locale giovanile di memorie «alternative», mentre la casa dei borghesi Ford ha la pretenziosa luminosità di una villotta con piscina «tentatrice». E il bosco incantato e misterioso della beffa finale, evoca un equivoco luogo per scambisti dal sesso facile, in una oscurità di alberi e cespugli ove infrattarsi per consumare. Grazie anche alle luci mirate di Pasquale Mari che rendono nitida anche la più peccaminosa e traditrice oscurità, la scena prodigiosa e cangiante nella sua apparente classicità rende Margherita Palli ormai inarrivabile nella solidità delle più effimere ed estreme architetture teatrali.

I costumi divertenti e scollacciati sono di Ursula Pastzak, i movimenti scenici di Raffaella Giordano. Come sempre più spesso è evidente, si sente nei lavori di Martone l’importanza di un lavoro collettivo, cui lo spettatore non può sottrarsi di aderire, tanto più nel disordine di valori di chi vuol burlare e finisce più spesso burlato. E che desolatamente si unirebbe alla gran fuga finale che per Verdi era un saluto all’arte e al secolo, e oggi suona per noi inquietante conclusione politica: «Nel mondo tutto è burla», davvero.