Uniti sì perché divisi si perde e «quando si è sconfitti nelle grandi città significa aver perso». Parola di un Salvini accolto dai parlamentari leghisti con raffiche d’applausi, nel primo incontro dopo la batosta. Ma essere unitari è un’impresa per la destra italiana improba. Un punto di coesione c’è e dopo quasi tre decenni si chiama ancora Silvio Berlusconi. La sua corsa al Colle è per molti versi l’unica vera causa comune del centrodestra, insieme al semaforo rosso contro il proporzionale offerto a Giorgia Meloni come ramoscello d’ulivo e prezzo per il sostegno all’impresa del Cavaliere.

BERLUSCONI è galvanizzato, adrenalinico e le circostanze lo supportano. Proprio mentre a Bruxelles, in occasione del vertice del Ppe che è anche un commosso saluto ad Angela Merkel, riveste i panni un tempo abituali del mattatore, da Siena arriva la notizia dell’assoluzione nel processo Ruby-ter. L’accusa a carico suo e del pianista di Arcore Danilo Mariani era corruzione in atti giudiziari. La corte ha stabilito che il fatto non sussiste. Ottimo presagio ma forse qualcosa di più perché la corte di Arcore ritiene che la sentenza possa fare scuola e ricadere a pioggia sulle disavventure giudiziarie legate alle Olgettine.

Silvio è a Bruxelles per festeggiare Angela ma anche per lanciare la sua campagna «Silvio for President», anche se lui smentisce: «Sono in forma ma non penso al Quirinale». La sincerità non è mai stata la sua dote principale. Gli chiedono cosa pensi di un eventuale Draghi capo dello Stato: «Sarebbe un ottimo presidente ma come premier è più utile». Per la presidenza il suo nome preferito è un altro: se stesso. Per provare a battere quel sentiero impervio Silvio il Moderato deve risolvere il problema rappresentato da quegli alleati, ormai ben più forti di lui, che di moderato hanno ben poco. Niente paura, ghe pensi mì: «Io sono il maestro. Salvini e Meloni gli allievi. Le idee e i valori sono quelli di Fi, soggetto federatore. Il centrodestra italiano è lontano da ogni estremismo».

Ottimo e rassicurante se non fosse che un attimo dopo Salvini si abbraccia in videoconferenza con Marine Le Pen e annuncia l’intenzione di dar vita a un gruppo comune all’europarlamento. Non è che voglia smentire il garante di Arcore. È che a scegliere tra l’anima moderata e quella comiziante, tra la marcia verso il Ppe e la spontanea propensione per il Front National, proprio non ce la fa.

NON È SOLO QUESTIONE di collocazione europea. Sul caso Lamorgese Berlusconi frena: «È ministro di un governo che sosteniamo. Sempre meglio astenersi dai contrasti con singoli ministri». Salvini, a Roma, invece spara anche se quasi a salve: «Giudico dai fatti e non brilla». Se FdI dovesse portare in aula una mozione di sfiducia l’unità del centrodestra sarebbe messa a dura prova. Ma quanto fittizia e fatiscente sia quell’unità lo rivela proprio il leader leghista, nel passaggio del discorso ai parlamentari che riguarda FdI e che trapela poi, con un audio «rubato», urbi et orbi: «Si può concordare con FdI una quota comprensibile di rottura di coglioni dall’opposizione, che però mini il campo Pd-5S, non fatta scientemente per mettere in difficoltà Lega e centrodestra». Unitario, anzi vellutato.

DEL RESTO LE SCINTILLE tra Lega e FdI sono poca cosa rispetto alla guerra interna a Fi, che per la prima volta vede coinvolto direttamente il fondatore. «Le dichiarazioni del ministro Gelmini sono fuori dalla realtà», va giù brusco Berlusconi. Ma gli ammutinati non demordono. «La ministra Gelmini ha espresso un disagio diffuso e profondo», replica la collega Carfagna. «La difficoltà è innegabile, il malcontento diffuso», rincara Brunetta. I ribelli sono decisi ad andare avanti per «correggere la linea di Fi». Ma senza uscire dal partito però, anche perché al momento non saprebbero dove andare.

COSÌ IL VERO PUNTO comune dell’intera destra finisce per essere proprio la scommessa folle del Cavaliere: il Colle. «Berlusconi sta decidendo. Se decidesse di scendere in campo avrebbe tutto il nostro appoggio», assicura Salvini che però aggiunge un passaggio molto eloquente: «Non escludo che al Quirinale voglia andare Draghi ma le elezioni anticipate non ci sarebbero. Ci sarebbe un altro primo ministro». È una porta spalancata per l’ipotesi Draghi con Franco a palazzo Chigi, l’unica che consentirebbe all’attuale premier di lasciare la guida del governo tra pochi mesi. Ma è storia di domani. Oggi, per l’ennesima volta, Silvio Berlusconi e la sua assurda sfida sono l’unico vero collante della destra.