Eimuntas Nekrošius è stata una delle due star internazionali (l’altra è Jan Fabre) della decima edizione del Napoli Teatro Festival Italia che si è conclusa il 10 luglio. Il grande regista lituano, tra i più famosi ed affermati registi teatrali a livello internazionale, questa volta ha finalizzato il suo talento visionario a un laboratorio riservato ad attori professionisti di età compresa tra i 23 e i 36 anni, nell’ambito della sezione del Festival dedicata alla Formazione. Artefice di un teatro visionario e antinaturalistico pluripremiato in molti festival internazionali grazie a spettacoli dal forte impatto visivo e simbolico con soluzioni sceniche che esaltano la dilatazione del tempo e l’importanza dell’immagine e del gesto rispetto alla parola recitata che gli hanno fatto conquistare negli anni schiere di teatrofili e critici in adorazione, Nekrošius quest’anno ha cominciato a collaborare con il Festival per un progetto lungo tre anni. Il primo workshop intitolato «Theatre Bridges» si è tenuto al Teatro Trianon Viviani diretto da Nino D’Angelo a ridosso di Forcella e il pubblico poi ha potuto assistere al lavoro fatto con prove aperte per due giorni. Freddo, essenziale, riservato, determinato nel lavoro che affronta con dedizione maniacale, l’artista lituano non concede molte interviste e quelle poche le affronta come un dovere professionale che non deve allentare più di tanto la tensione del laboratorio, tranne una pausa di circa mezz’ora concessa ai 20 giovani attori selezionati su 140 domande da tutta Italia e anche dall’estero (ci sono anche alcuni napoletani). La tentazione di fargli subito una domanda sul contrasto palpabile tra il contesto e la linea popolari del Trianon e il suo teatro intellettuale è forte ma non è il caso visto che è la prima volta che viene a Napoli e non ha ancora avuto modo di girare e conoscere a fondo la città.

È la terza volta che lei ha un contatto artistico con Napoli. Alcuni mesi fa si è vista la sua lettura del racconto di Kafka della durata di un’ora e un quarto e qualche anno fa portò la sua versione di «Anna Karenina» di Tolstoj che invece durava circa quattro ore. Che rapporto ha con il tempo scenico?
Non ho formule. Comincio a raccontare e, a volte, mi accorgo che ho bisogno di più tempo per dire tutto. Altre, vorrei essere più breve, ma non ci riesco.

Questa è la prima volta che viene a Napoli.
Finalmente per questa collaborazione con il Festival sono venuto a Napoli. Non ci ero mai stato, anche se conosco molte città italiane. Mi trovo bene. È una città particolarmente umana. Non ho ancora visto molto ma ho trovato qualcosa di vivo, vitale e vivace.

Come è organizzato il laboratorio? Come lavora con questi attori che ha conosciuto per la prima volta?
Ho deciso di lavorare con loro sulle tecniche di improvvisazione partendo da sollecitazioni letterarie. Il primo spunto è tratto dagli scritti della giornalista e scrittrice Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura 2015. Non abbiamo costruito lo spettacolo con un vero e proprio testo di partenza, ho lasciato libertà agli attori di scegliere i brani dei materiali della scrittrice che ho utilizzato, non c’è un percorso preciso, è tutto in fieri, viene costruito in progress con una struttura aperta. Non c’è una scrittura definitiva o un testo drammaturgico forte. Il testo si crea con gli attori stessi, scelgono i brani, si prova, ci si confronta e gradualmente lo spettacolo prende forma. Rispetto ad altri autori che ho messo in scena, la Aleksievic è meno conosciuta anche se è una scrittrice complessa e i temi che tratta sono importanti.

Lei in un primo momento come testo per il laboratorio aveva pensato al «Don Chisciotte». Perché poi ha preferito l’Aleksievic per questo esordio napoletano?
Sono stati gli attori a scegliere in modo molto naturale e libero. Abbiamo provato anche Cervantes, ma poi ci siamo concentrati su Svetlana, che non è Čechov, non appartiene alla loro cultura ma, profondamente, a quella russa, a quella ucraina. Quello che ha scritto è legato alla nostra vita. Le migliaia di soldati partiti per l’Afghanistan e tornati in bare di zinco o il disastro nucleare di Černobyl’ distano da noi la lunghezza di un braccio. Amo il contenuto dei suoi libri, ispirati da centinaia di interviste con la gente comune, la tonalità della sua voce dolorosa, la sincerità e la semplicità del racconto. Il materiale quindi è nuovo, come gli attori, che non hanno nemmeno un testo drammaturgico di riferimento. Si lavora scoprendo, ascoltando, cercando. Gli attori improvvisano sui materiali di Svetlana, i suoi libri, le sue parole. Io li osservo, non insegno, do loro alcuni suggerimenti. Il segreto, per chiunque, è imparare ad ascoltare, a capire, cominciando dagli aspetti umani, ancora prima di quelli tecnici e di recitazione.

Come sono questi ragazzi scelti tra 140? Alcuni recitano in napoletano.
Non amo dividere gli attori tra bravi e meno bravi. Se hanno passione e hanno seguito una scuola, sono già in grado di fare il mestiere. Il resto dipende dalla fortuna, dal caso. Importante è aver voglia di lavorare. Per ora sono soddisfatto. Per quanto riguarda il napoletano, è stata una scelta loro. Non posso comprendere la differenza con l’italiano, ma ho accettato volentieri.

Il Napoli Teatro Festival le ha proposto, per lo spettacolo del 2019, di mettere in scena la «Scienza nuova» di Vico.
Sì, ma non ho scelto ancora. L’argomento ha bisogno di attento approfondimento e preparazione, non vi è alcuna traduzione in lituano del testo di Vico e per ora non lo conosco bene. Percepisco, rispetto a quello che so, che si tratta di un’opera davvero profonda e significativa.

Per i suoi workshop preferisce testi di letteratura a quelli di teatro
Si preferisco più i testi narrativi che la drammaturgia classica, privilegio i testi letterari rispetto a quelli teatrali. Mi diverto di più. Sento di avere più libertà d’azione.

Nel suo teatro così visionario e antinaturalistico si fa ispirare anche dal cinema?
Cerco sempre di fare quel che sento. Conosco e amo la letteratura, e anche il cinema, ma non mi ispiro a qualche regista in particolare.

Parliamo di maestri del teatro. Tra Stanislavskij, Meyerhold e Brecht chi preferisce?
A scuola, Stanislavskij lo odiavamo, perché era materia obbligatoria. Di Meyerhold si sapeva assai poco in quell’epoca poi ho scoperto che era un grande teorico. Brecht non mi piace.

Lei ha fatto un’esperienza con attori napoletani. Napoli ha una grande tradizione teatrale con autori come Eduardo De Filippo e Raffaele Viviani al quale è intitolato il teatro Trianon. La conosce?
Naturalmente non conosco ancora l’intera ricchezza del patrimonio della città di Napoli. Purtroppo, in passato, non ho avuto alcuna possibilità per approfondire. Ma, per mia cultura generale, ho capito che Napoli è una radice importante del grande albero del teatro italiano. Ho lavorato con molti attori campani e mi hanno raccontato tanto di un popolo dotato di uno spiccato senso artistico, con una ampia gamma di sentimenti. Pur non essendo italiano, riesco a distinguere un attore del Sud da uno del Nord. Sarà stata di certo la natura ad aver trasmesso la continuità delle tradizioni. Questo è il motivo per cui gli attori napoletani sono diversi, speciali, usano sul palco segni artistici inequivocabili attraverso una eterogenea tipologia di linguaggio. Sono davvero eccezionali.