Non si sa quanto tempestiva possa essere stata l’uscita di Homegrown nel medesimo giorno della pubblicazione del nuovo e doppio album di Bob Dylan, Rough and Rowdy Days. Sta il fatto che in questa fase 4 o 3.0 e ¾ post-pandemica sembra che i settantenni leoni del rock riescano a dar la zampata giusta: quell’esatta misura che fa esclamare che anche le attese più lunghe, sette o otto anni, a memoria, per il Premio Nobel di Duluth e addirittura più di 9 lustri per Young, siano servite e non hanno fatto rimpiangere le lunghe assenze. Ovviamente si sta parlando di canzoni inedite. Perché tutti e due gli artisti hanno archivi commercialmente spendibili da immettere sul mercato discografico. Dunque, si diceva dell’assenza di canzoni inedite, ciò vale ancor più per il cantautore canadese, di recente diventato a tutti gli effetti cittadino americano, che ritrova uno dei suoi dischi più sofferti, registrato nel ’74 e pronto per uscire l’anno dopo.

PER GIUNTA per pene d’amore, con la compagna di allora, l’attrice Carrie Snodgress. Stretto cronologicamente tra il successo di Harvest, gli acclamati tour di CSN&Y, e la cosiddetta «trilogia del dolore», Homegrown ne è la summa sintesi. Per certi versi anche più di Tonight’s the night, considerato dalla critica il suo capolavoro. Interessante nella successione dei brani elettrici e acustici, le diffuse ospitalità come quelle di Levon Helm e Robbie Robertson di The Band o di Emmylou Harris. Ascoltato a tutti questi anni di distanza, le canzoni si mostrano: dure, dolci, grezze, raffinate. Insomma, vi è tutto il Nei Young del passato e del futuro. Colui che verrà salutato come anticipatore del punk come due decenni dopo del grunge.