«Il mondo ha perso un vero gigante della storia del rock. Un’ispirazione per milioni di persone con un sound inconfondibile che ha portato generazioni di musicisti come me a prendere in mano un paio di bacchette e inseguire un sogno. Un uomo gentile, riflessivo e brillante che ha tenuto banco nelle nostre radio e sui nostri giradischi non solo con la batteria, ma anche con i suoi bellissimi testi. Ricordo ancora molto bene la prima volta che ho ascoltato 2112, avevo otto anni: fu la prima volta che mi capitò di ascoltare davvero un batterista, da allora la musica non è stata più la stessa. La sua potenza, la sua precisione e la sua scrittura erano incomparabili. Lo chiamavano “il professore”, e c’era una ragione: tutti abbiamo imparato da lui. Grazie Neil per aver reso con la tua musica le nostre vite un posto migliore». Così, con frasi che non sembrano dettate dal veleno consuetudinario, quello che ci porta a ricordare chiunque sia scomparso per meriti immaginari, compatendo in realtà le proprie personalissime miserie, Dave Grohl ricorda la scomparsa del suo eroe, Neil Peart, il batterista e autore dei testi dei Rush che, nel rock dell’ultimo mezzo secolo lascia un vuoto che sembra una voragine. Parola dell’ex batterista dei Nirvana, poi diventato chitarrista e voce dei Foo Fighters, uno che sulle proprie ragioni del far musica ha riflettuto parecchio.
Nella lettera aperta in ricordo di Neil Peart, scomparso il 7 gennaio scorso dopo quasi quattro anni di lotta a viso aperto con un tumore al cervello che alla fine se l’è portato via, c’è davvero il riassunto di una vita operosa: quell’essere un musicista appassionato, un grande tecnico del proprio strumento che non aveva mai abdicato alle ragioni dell’emozione, una persona lucida e cosciente di sé tesa al personale miglioramento, con lo studio continuo. E non solo delle cose che attengono al volatile reame delle note popular: Neil Peart era un «professore» di nome e di fatto, uno che nel corso di una discussione poteva citare, con cognizione di causa, decine di saggi e autori letterari che lo avevano influenzato, fatto salvo il tornare, una frazione di secondo dopo, a spiegarti perché quella sequenza sui tom di Keith Moon degli Who o quella rullata di Buddy Rich era stata importante per lui per imparare il segreto della potenza espressiva della batteria.
PESO SPECIFICO
Neil Peart è l’uomo che ha fatto grandi i Rush, il gruppo canadese che s’è portato sulle spalle il carico di una delle formazioni con il peso specifico più gravoso, nella storia del rock: il power trio, traghettandolo in un altrove imprevedibile, nel segno del progressive rock. La formazione chitarra-basso-batteria che ha avuto nei Cream, nel trio Experience di Jimi Hendrix e nei Blue Cheer un’iniziale connotazione forte. Difficile immaginare di andare oltre, con quel triangolo di strumenti pur sempre ancorati a blues e qualche divagazione para jazzistica: ma i Rush con Neil Peart l’hanno saputo fare. È un dato di fatto, verificabile ex post: si ascolti Rush, l’esordio del trio del ’74, dietro pelli e piatti ancora John Ritsey: è un ottimo disco epigono del suono graffiante e turgido dei Led Zeppelin, quasi una clonazione, però. Poi , l’anno successivo, entra in formazione quello strano ragazzo riflessivo e curioso, Neil Peart. E già con Fly by Night il power trio diventa un’altra cosa: più vicino nella sostanza al prog rock degli EL&P, mutatis mutandis, che alle dure sferze blues rock dei gruppi delle origini.
Neil Peart, nato nel ’52, era stato un irrequieto e al contempo studioso ragazzo della provincia profonda di Toronto. Ha un talento naturale per il ritmo, si avvicina alla batteria giovanissimo, e, come tanti futuri grandi musicisti della sua generazione, cresce con una doppia influenza nel cuore e nel cervello. Da una parte c’è il suono inventivo, tonitruante ed eccessivo di batteristi rock come Keith Moon e John Bonham, caratterizzato anche da elevati livelli di imprevedibilità, nelle soluzioni, dall’altro l’ascolto attento di Buddy Rich, il batterista jazz simbolo dell’età dello swing (ma fu attivo anche in epoca successiva) che, a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso seppe portare la tecnica della batteria a vertici di virtuosismo, valorizzando ogni singolo componente del set percussivo con passaggi velocissimi distribuiti su ogni pezzo. Buddy Rich sarà un faro musicale per tutta la vita, per il batterista rock e intellettuale Neil Peart: tant’è che negli anni Novanta sarà il produttore di due album tributo per lui, coordinando gli apporti di grandi batteristi moderni per il padre fondatore. Neil Peart dunque porta in dote ai Rush uno stile complesso e swingante al contempo, dove i drum fill negli accompagnamenti sono sempre inventivi e lontani anni luce dalla banalità, e gli assoli, molto spettacolari, prevedono lunghe incursioni in tormentati passaggi segnati da tempi dispari e composti, che mettono in evidenza una strabiliante indipendenza tra gli arti.
RIFERIMENTI COLTI
I Rush, da Fly by Night in avanti, sono un gruppo di musicisti veri: e Peart negli anni continua ad implementare il suo kit di percussioni, aggiungendo elementi elettronici e campionamenti di percussioni etniche. L’intelligente hard rock dei Rush dunque prende sempre maggiori sfumature di complessità, e tra la metà degli anni Settanta e i primi Ottanta i loro dischi sono piccole gemme ineffabili di potenza elettrica, senza abdicare alla finezza espressiva coeva mostrata da gruppi propriamente prog rock come i Genesis, gli Yes, i King Crimson. Loro lo fanno in tre, con chitarra, basso e la batteria monumentale di Peart, distribuendosi le parti di tastiere: è nato il modello del prog metal, cui attingeranno gruppi come i Dream Theater, i Fates Warning, i Porcupine Tree, perfino i cupi ed avveniristici Tool. I brani si dilatano, arrivano le suite che durano quanto una facciata di ellepì. E dal vivo è anche meglio, come testimoniano dischi rimasti nella storia del rock come All the World’s a Stage, Exit-Stage Left, A Show of Hands.
Un valore aggiunto lo danno i testi: la stragrande maggioranza dei quali, da quando entra in formazione, li scrive Neil, quello dei tre che padroneggia una lingua colta e densa di riferimenti, frutto di continue letture e meditazioni sui libri. Ecco allora nei suoi brani per i Rush citazioni da William Shakespeare, da Nietzsche, da Coleridge, da Dos Passos, dal nostro Machiavelli, da Tolkien. Un segno speciale lo lascia la scrittrice e filosofa statunitense ultralibertaria Ayn Rand, che gli ispira Anthem e il testo dell’impegnativa suite 2112, dove si immagina un mondo spietato dove il rock è bandito, un po’ come in Joe’s Garage di Frank Zappa. E poi ci sono i riferimenti agli scrittori di fantascienza classica, interpretati (a ragione) come «nuovi umanisti»: è quella la fonte principale per tutti i brani più tardi dei Rush, quando Peart si sposta sempre più verso una sorta di umanesimo benevolo e progressista. Quando non scrive per i Rush, Peart scrive per sé, da scrittore consumato, e brillante raconteur delle sue peregrinazioni per il mondo in lunghi viaggi in bici e in moto.
Nel ’96 assieme ai compagni di palco e avventure sonore dei Rush diventa Ufficiale dell’ordine del Canada, per meriti artistici, poi nel ’97 cominciano le mazzate: prima muore in un incidente a diciannove anni l’unica figlia, Selena, l’anno dopo la moglie. Sono anni bui. Riesce a riprendersi, leggendo e viaggiando, e torna in pista con i suoi Rush nel 2001, dopo aver trovato una nuova compagna: ha una nuova energia, e dischi quasi nu-metal come Vapor Trails e Snakes and Arrows danno lezioni di potenza e duttilità a musicisti che hanno un quarto di secolo in meno sulle spalle, mentre in Feedback si diverte a omaggiare i brani della sua gioventù, perché il rock, come aveva scritto nel 1980 in The Spirit of Radio, «è un dono inestimabile».