È il 1955 e a Roma, nel quartiere di San Paolo, lo sguardo è rivolto alla vita di un piccolo nucleo famigliare, composto da Benedetto ed Elena e i loro tre figli, Annamaria, Nino e Patrizia. La storia raccontata da Marco Proietti Mancini nel suo La luce degli istanti felici percorre (Edizioni della sera, pp. 260, euro 15.90), con equilibrata dedizione, ciò che occhieggia nei suoi romanzi precedenti: Da parte di Padre, Gli anni belli e Il coraggio delle madri. In questo suo ultimo, siamo ancora in compagnia di una famiglia semplice, di cui avvertiamo il pudore antico e la costruzione di una identità che non è nazionale bensì che traccia l’affresco corale di esistenze minime impigliate negli anni che dal post seconda guerra mondiale si aprono al cosiddetto progresso economico. Ciò che racconta però l’autore, cui tiene di più, sta nel titolo come attento monito al dettaglio di una trasformazione che dal privato percorre e accompagna anche l’aspetto sociale. Sono tinte nitide quelle utilizzate che fanno da sfondo a una città sempre presente, con amore e cura verso le sue strade, i nomi dei quartieri e soprattutto la collocazione, anche in questo caso semplice e vera, di una fiducia popolare e proletaria verso un luogo che non solo sia abitabile ma che rappresenti una geografia della vita che non si ferma.

L’arco temporale in cui si svolge La luce degli istanti felici è infatti quello che dal 1955 arriva fino al 1960, precisamente alle Olimpiadi di Roma e alla medaglia d’oro di Livio Berruti. Una breve manciata di anni possono concentrarsi in pochi secondi se qualcosa di repentino accade. Ma qui, nel romanzo di Proietti Mancini, niente avanza con spavento o strappo. Ci sono i pensieri di Benedetto che, nel cuore delle sue notti insonni, fa esercizio di precisione interiore e scioglie le incomprensioni di ciò che vorrebbe dirgli sua moglie Elena quando si ostina a chiamare tinello una stanza della casa. C’è chi legge il Pratolini di Cronache di poveri amanti. C’è la crescita di una adolescente alle prese con il suo primo amore. C’è la condivisione antica che si aveva nei pianerottoli e nelle case, quando il senso di accoglienza era una base di socialità indiscutibile. E c’è la presenza, segnata da una profondità elementare, di altri anni e padri come Bittuccio. Sembra dirci, lo scrittore, che ogni cosa ha la dignità di essere conosciuta se raccontata con speranza. E con una parola dei sentimenti che rende Roma meno perduta di quanto chi ci vive oggi non la dipinga. Una città all’altezza del cuore dove non tutto è possibile, dove non ci sono scorciatoie magiche ma in cui ogni cosa segue una via precisa che è quella della realtà, tra miseria e lo splendore di essere insieme.