A fine marzo, mentre le Forze democratiche siriane (Sdf) celebravano la liberazione di Baghouz, ultima enclave siriana dell’Isis, la città di Manbij veniva scossa da un nuovo attentato firmato Daesh. Sette morti tra i combattenti della federazione multietnica e multiconfessionale nata nell’ottobre 2015 nel nord della Siria.

In quell’occasione Shervan Derwish, portavoce del Consiglio militare di Manbij, si appellava alla comunità internazionale perché si prendesse in carico i miliziani islamisti catturati in questi anni dalle forze di Rojava: processiamoli in un tribunale speciale. Perché, a oggi, il peso di quei miliziani grava esclusivamente sulle spalle delle Sdf in Siria e, al di là del confine, del governo iracheno.

Le stime le forniscono le stesse Sdf: sono circa mille i foreign fighters, di 48-50 diverse nazionalità detenuti nella Siria del nord. Con loro ci sono le famiglie: almeno 12mila tra donne e bambini, mogli e figli degli stranieri che in questi anni hanno fatto propria l’ideologia fascistoide dello Stato islamico e si sono trasferiti tra Siria e Iraq.

Di certezze ce ne sono poche, almeno secondo fonti statunitensi: un mese fa tre funzionari di Washington (presente nel nord della Siria, nonostante le promesse di ritiro, con 2mila marines al fianco delle Sdf) parlavano di 2mila foreign fighters detenuti. «Possiamo confermare che oltre mille terroristi stranieri da più di 50 paesi sono detenuti dalle Sdf – spiegava il portavoce del Pentagono, Sean Robertson – Ma il numero crescerà via via che le Sdf identificheranno le nazionalità dei miliziani Isis».

Sono detenuti nelle carceri, separati dalle famiglie. «Donne e bambini sono divisi in tre campi diversi, tra cui quello di Al Hol – ci spiega Benedetta Argentieri, giornalista e documentarista italiana, autrice del documentario I am the Revolution – La situazione è drammatica perché non ci sono fondi. I curdi sono lasciati da soli a gestire una realtà ingestibile, senza sostegno economico. Ci sono ong, principalmente la Mezzaluna rossa, ma cibo e ripari sono tutti forniti dalle Sdf. E quando Trump ha annunciato il ritiro degli Stati uniti, i pochi paesi europei che avevano dato finanziamenti li hanno fermati. I governi occidentali sono assolutamente impreparati, presi alla sprovvista da numeri altissimi».

Molte donne sono detenute nel campo di Al Hol, a est di Hasaka, ad appena dieci chilometri dalla frontiera con l’Iraq. Tende bianche che spiccano nel giallo ocra della terra sabbiosa, negozietti aperti dagli sfollati arrivati qui dopo l’obbligata fuga dalle battaglie che hanno spinto l’Isis fuori dalle loro comunità, devastate. Erano appena 10mila i rifugiati accolti ad Al Hol a gennaio: ora sono diventati 70mila.

Tra loro i familiari dei miliziani del «califfo» al-Baghdadi: «In due campi, tra cui Al Hol, ci sono anche sfollati interni, gente di Deir Ezzor, Mosul, Raqqa che sono liberi di uscire ed entrare. Le donne dello Stato Islamico no, sono in una sezione speciale: non possono uscire dalla loro sezione se non scortate. La situazione è molto dura per tutti, per mancanza di risorse e perché molte delle guardie hanno parenti uccisi dall’Isis. C’è molta tensione. Al Hol sembra un girone dell’inferno: le donne nella maggior parte dei casi indossano ancora il niqab e i bambini non vanno a scuola perché le madri vivono ancora nella mentalità jihadista».

Di prigioni adatte a numeri simili le Sdf non ne hanno a disposizione. Così, circa 900 miliziani iracheni sono stati consegnati a Baghdad che da mesi processa membri dell’Isis, o sospetti tali. Iracheni, ma non solo: in mano al governo di Baghdad ci sarebbero anche una decina di francesi e un tedesco. Dietro ci sarebbero accordi con i paesi di origine a cui Baghdad pensa bene di chiedere il conto: li processiamo e li deteniamo, ha detto una fonte irachena all’Afp, per due milioni di dollari l’anno a prigioniero.

Questo il prezzo dato da Baghdad a fronte della «soluzione» al problema, 20mila arrestati per legami con l’Isis dal 2017, di cui la metà già alla sbarra. Una «soluzione» però che finisce per creare un altro, di problema: le organizzazioni per i diritti umani denunciano processi di massa contro i miliziani e le loro mogli, spesso della durata di pochi minuti, confessioni estorte sotto tortura e condanne a morte.

«Una parte dei prigionieri uomini di nazionalità irachena – continua Argentieri – sono stati consegnati a Baghdad. Le donne, straniere e non sono terrorizzate dalla possibilità che possa accadere anche a loro: in Iraq ci sono corti sommarie, processi della durata di cinque minuti che terminano con l’ergastolo o la pena di morte. Le Sdf, per ragioni umanitarie e politiche, non vogliono consegnarle».

Il problema è significativo. I numeri totali sui foreign fighters jihadistili ha dati meno di un anno fa l’International Center for the Study of Radicalisation del King’s College di Londra: 41.490 stranieri hanno aderito all’Isis – 32.809 uomini, 4.671 donne e 4.640 bambini – da 80 paesi del mondo. Buona parte di questi, quasi 19mila (45,4%), provengono da Medio Oriente e Nord Africa; 7.252 (17,5%) dall’Europa dell’est; 5.965 (14,4%) dall’Asia centrale; 5.904 (14,2%) dall’Europa occidentale, in particolare Francia, Germania, Regno unito e Belgio, “solo” 135 dall’Italia (di cui 24 di cittadinanza italiana, secondo l’Ispi); 1.010 (2,4%) dall’Asia orientale; 1.063 (2,5%) dal Sud est asiatico; 753 (1,8%) da Americhe e Australia; 447 (1%) dall’Asia meridionale; e 244 (0,6%) dall’Africa sub-sahariana.

Di molti di loro è impossibile conoscere il fato: la maggior parte sarebbero stati uccisi in battaglia, altri mille sarebbero detenuti in Iraq, quasi 7.400 avrebbero fatto ritorno nei paesi di origine. Ma il potere attrattivo della propaganda jihadista, pur perso il territorio “statuale”, resiste: lo scorso febbraio il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, stimava tra 14mila e 18mila i miliziani ancora attivi tra Siria e Iraq, di cui almeno 3mila stranieri.

La questione è politica. La proposta di un tribunale internazionale (i curdi hanno chiesto un incontro con i rappresentanti delle 48 nazioni da cui i foreign fighters provengono, senza successo) è di difficile applicazione. Ma l’apatia non è più un’opzione: «La domanda che dovrebbe farsi l’Europa – conclude Argentieri – è perché tante persone abbiano lasciato la democrazia per andare a vivere sotto la sharia. Le donne che sono partite erano consapevoli di dove stavano andando. Ho incontrato donne svedesi, inglesi, italiane, francesi, canadesi, tedesche, russe. Addirittura dal Sudafrica e da Trinidad e Tobago. Tante sono di seconda o terza generazione ma tante altre no: ci sono bambini biondi con gli occhi azzurri. E resiste una concezione sbagliata di queste donne: le si dipinge come vittime che hanno solo seguito gli uomini, ma moltissime di loro hanno avuto un ruolo attivo nello Stato islamico, nella sua gestione amministrativa e militare. Hanno seguito training ideologici, erano a capo della brigata morale o al fronte, gestivano le schiave yazide. Soprattutto le europee. E hanno cresciuto i figli nell’ideologia jihadista. Le siriane lo raccontano spesso: le straniere erano le più feroci, le più estreme perché volevano dimostrare un’appartenenza, un’identità».