Di nuovo l’eruzione della protesta a Ferguson, ma stavolta i suoi lapilli incandescenti ricadono su tutto il resto degli Stati Uniti: manifestazioni di varie entità e caratterizzate da comportamenti diversi – e non composte da soli afroamericani – hanno luogo da lunedì scorso in tutte le maggiori città, da una costa all’altra. Perché le parole con cui il procuratore della contea di St. Louis ha annunciato la decisione del gran giurì sono state tanto offensive, quanto la decisione di non rinviare a giudizio l’agente Darren Wilson.

Ma anche perché, nei tre mesi passati tra l’omicidio di Michael Brown e ora, altri fatti come quello sono successi in altre parti del paese.

Soltanto i più assurdi – come quelli del dodicenne Tamir Rice ucciso in un parco di Cleveland perché aveva in mano una pistola giocattolo o del ventottenne Akai Gurley ammazzato sulle scale scure di casa sua a New York – fanno notizia fuori degli Stati Uniti. Di tanti altri, al loro interno, spesso sono solo i media locali a dare notizia, con maggiore o minore rilievo. Invece la comunità nera tiene i conti. La giornalista Melissa Harris-Perry ha denunciato che almeno due cittadini afroamericani sono stati uccisi ogni settimana da poliziotti bianchi tra il 2006 e il 2012. Il Malcolm X Grassroots Movement ha pubblicato l’anno scorso un rapporto – Operation Ghetto Storm – da cui risulta che nel 2012 una persona afroamericana è stata uccisa ogni 28 ore da un agente, un poliziotto privato o un vigilante. E nei giorni scorsi lo storico Robin Kelley ha elencato su Counterpunch tutti gli ultimi casi di ingiustificabile e mortale violenza poliziesca accaduti in Ohio, Illinois, Michigan, Utah, California, New York.

Perché la protesta si allarga

Ed è proprio la diffusione di tale violenza su tutto il territorio nazionale che dopo avere prodotto infinite iniziative di denuncia e organizzazione ha portato ora all’allargamento della protesta. Ferguson ha fatto da catalizzatore. La stessa lentezza del gran giurì e i dubbi intorno ai suoi lavori hanno favorito la crescita del movimento a St. Louis, che dopo avere organizzato manifestazioni pacifiche nei mesi scorsi, è stato al centro della risposta di piazza, non più pacifica, il 24 novembre.
Dopo il 9 agosto, tutti avevano scritto che a Ferguson il corpo di polizia era quasi totalmente bianco in un contesto sociale prevalentemente nero e tutti avevano scritto dell’impoverimento della sua popolazione afroamericana.

L’espropriazione dei poveri

Ma solo ora, grazie al lungo, impressionante saggio-inchiesta di Radley Balko, un giornalista del Washington Post, le più generali analisi sociologiche e politiche sulla oppressione di casta e classe hanno conferma nei «numeri» e nella casistica minuta delle «persecuzioni e umiliazioni giornaliere» inflitte ai neri poveri in quella parte del Missouri.
Anzitutto, soltanto in una delle 31 municipalità della contea di St. Louis, cui appartiene anche Ferguson, la proporzione di neri nei singoli corpi di polizia è superiore a quelle dei locali residenti neri. E pressoché ovunque i comportamenti di poliziotti e magistrati sono così stabilmente, e spesso pretestuosamente, mirati a colpire i residenti afroamericani con incriminazioni, pene e sanzioni da giustificare che, da una parte, Robin Kelley possa parlare di una «guerra di bassa intensità» contro le componenti povere della popolazione e che, dall’altra, si possa dire che attraverso essa viene anche messo in atto un letterale esproprio ai loro danni. A Ferguson il numero degli arresti è pazzesco: su 21.000 abitanti, 32.000 mandati d’arresto nel 2012. Per alcune delle municipalità circostanti i proventi dalle multe e sanzioni costituiscono fino al 40 per cento delle entrate. Non è dappertutto così, naturalmente. E le forme persecutorie cambiano a seconda delle aree e di quale è la minoranza più numerosa. Qui i poveri sono soprattutto afroamericani, altrove sono anche latinoamericani. A New York o a Los Angeles neri e latinos insieme costituiscono l’ottanta per cento delle persone fermate e perquisite dalla polizia.

Il procuratore McCulloch e i «suoi» giurati hanno ritenuto insufficienti le prove necessarie per sottoporre l’agente Darren Wilson a un regolare processo in una corte di giustizia. Tuttavia il caso di Ferguson non è chiuso. Rimane in piedi l’indagine federale sul suo corpo di polizia voluta da Obama e affidata al ministro della Giustizia Holder. La speranza è che l’impunità della polizia venga infine scardinata, grazie alla tenaglia della protesta dal basso e dell’intervento dall’alto; ma le aspettative, realisticamente, non sono altrettanto ottimistiche.

Il debito del debole Obama

Il pessimismo è giustificato dalla situazione in cui si trovano il Presidente e il suo gabinetto. Il dato di partenza è che gli afroamericani e i latinos hanno votato in percentuali molto alte per Obama e per i democratici. A loro la Presidenza attuale deve molto. Per questo Obama ha inaugurato i suoi ultimi due anni di mandato con un ordine esecutivo che apre la strada verso la regolarizzazione a 4-5 milioni di immigrati illegali i cui figli sono nati negli Stati Uniti (e che per il vigente ius soli sono cittadini statunitensi). L’ordine esecutivo è stato motivato con il fatto che la maggioranza repubblicana ha sempre impedito che venisse discusso alla Camera il progetto di riforma approvato dal Senato. Esso rivela, però, anche l’isolamento dell’esecutivo. Ora che i repubblicani sono in maggioranza in entrambe le camere, cercheranno di sgonfiare l’operatività della decisione di Obama. Lo faranno senza fanfara, per non perdere il voto latino nelle prossime elezioni; ma lo faranno, impugnando l’ordine esecutivo sul piano procedurale e magari proponendo un altro progetto di legge destinato a essere discusso e attuato dopo le votazioni del 2016.

Nulla per le minoranze

Per quanto riguarda gli afroamericani, quali che siano le conclusioni cui arriverà l’indagine Holder – che è inevitabile che censuri i comportamenti della polizia – è assai difficile che essa possa portare a cambiamenti sostanziali. Questi sarebbero possibili soltanto attraverso un mutamento politico-culturale generalizzato, che l’amministrazione Obama non è in grado di favorire e tanto meno di imporre. Le maggioranze repubblicane in Congresso e magari un futuro presidente repubblicano non faranno nulla a favore della minoranza afroamericana, né di altre minoranze, né dei poveri. L’elezione dell’afroamericano Obama alla presidenza ha avuto un straordinario valore simbolico, positivo per molti, ma negativo per molti altri. Lo hanno testimoniato le denigrazioni, gli insulti e gli attacchi propriamente politici di cui è stato oggetto in Congresso e fuori. E ora che Obama è «solo» nessuno avrà ragioni per cambiare atteggiamento nei confronti di una minoranza che lo ha votato al 90 per cento. Soprattutto, per di più, se il farlo implicasse – come implica, di fatto – cambiare gli orientamenti economico-politici a favore delle fasce povere della popolazione. Rimangono i movimenti. Sono numerosi e resi più combattivi dalle vicende di questi ultimi anni e mesi. Gli avvenimenti hanno anche costretto l’opinione pubblica e i media a focalizzare l’attenzione sulla realtà oggetto delle loro denunce. Ma per ora, anche loro, sono troppo soli.