Cominciamo dalla casa, quel «cubo» bianco davanti al mare di semplicità epicurea tra i colori blu luminosi, i suoni della natura e gli odori intensi (sembra di sentirli) delle erbe aromatiche che raccolgono i personaggi del film. Ibiza è il paesaggio sentimentale (senza cartolina) di Amnesia, il nuovo e bel film di Barbet Schroeder presentato in una punitiva proiezione fuori concorso come molti altri film – un titolo per tutti, Oka del grande maestro del cinema africano Souleymane Cissé, Quel rinnovamento annunciato da Frémeaux durante la conferenza stampa di presentazione del Festival sotto il segno del nuovo presidente Pierre Lescure significa dunque la sua trasformazione in evento mediatico coronato da tutte le star di Francia, promotore di set di immaginario rassicuranti, senza più posto per il cinema indipendente (mentalmente)?

A Ibiza nel 1950 la madre di Schroeder aveva comprato una casa: era il luogo delle vacanze, senza acqua, senza corrente elettrica, col pozzo riempito dalla pioggia, nel tempo ha deciso di trasferirsi sull’isola proprio come la protagonista del film. Le coincidenze non finiscono qui. Schroeder in quella casa nel ’68 gira More, il suo primo film, e la madre – ancora un lato in comune col personaggio femminile di Amnesia – prima della guerra aveva lasciato la Germania per trasferirsi in Svizzera, dove è nato il regista, rifiutando da allora di parlare il tedesco che non insegnerà neppure al figlio. E questa assenza /rifiuto della lingua materna è il punto di partenza narrativo del film che nel titolo, Amnesia, si riferisce a uno dei locali alla moda nel nuovo sound elettronico di Ibiza di quel periodo, l’inizio degli anni Novanta, per allargarsi al piano della Storia, alla cancellazione messa in atto dai tedeschi rispetto al nazismo nel dopoguerra.

Martha (la sublime Martha Keller) vive a Ibiza sola da quarant’anni, è tedesca ma ha messo da parte le sue origini anche se continua a leggere poeti e ascoltare musica del suo Paese. In casa conserva gelosamente un violoncello e la fotografia di un uomo, il suo maestro di musica ebreo deportato e ucciso dai nazisti. Martha non è ebrea ma appartiene a coloro che nella sua generazione, adolescenti durante la guerra, non hanno voluto distogliere gli occhi. C’è chi è fuggito tagliando radicalmente ogni legame – ricordo una critica anarchica, Heike Hurst, tedesca che viveva a Parigi e parlava per questa stessa ragione solo in francese – chi ha scelto la lotta armata, il Nuovo cinema tedesco degli anni Settanta nasce proprio da questo conflitto tra il silenzio imposto dalla ricostruzione (ferocemente implacabili i film di Straub&Huillet allora in Germania) e la necessità di romperne con violenza le «dimenticanze» complici.

Nella vita di Martha entra Jo, un ragazzo berlinese (Max Riemelt) musicista che coi suoi dj set elettronici vuole far ballare l’isola. È seduzione, amore come affinità intellettuale, scambio di conoscenze e scoperte reciproco, un mix sciamanico tra Beethoven e il suono degli uccelli che travolge la folla dell’Amnesia.

Autofinzione e Storia: nelle tracce della prima Schroeder dipana la seconda, ne modula i sussulti e le fratture in un meló raffreddato, e mette in gioco il cinema prima dell’esperienza personale i cui riferimenti sono presenti ma in forma di «finzione», romanzo della vita (e del cinema) nella sua profonda verità. Se si ripensa a More la figura di Martha potrebbe essere quella della protagonista (Mismy Farmer) decenni dopo l’eroina e la musica psichedelica, anche lì eravamo in un romanzo di formazione sulla vertigine di droga e Pink Floyd, e nell’isola si aggiravano nazisti e fascisti accolti dalla dittatura di Franco.

Schroeder va però oltre la semplice autocitazione, e sposta lo sguardo ancora una volta come è nella sua poetica sull’intreccio tra storie e Storia, le trasformazioni dei due protagonisti coincidono con quelle di un’epoca, la fine del Muro che divide le due Germanie, e della stessa Ibiza lanciata nel turismo rave e nella speculazione di massa. Il suo modo di interrogare la Storia non è mai netto, non proclama verità assolute ma rimane, appunto, nella contraddizione personale delle scelte e delle ragioni che si fabbricano per sostenerle. La Germania e l’Olocausto sono visti dalla parte dei tedeschi, non delle vittime ma di coloro che hanno partecipato, e che non hanno voluto affrontare limpidamente nel «dopo» questa Storia esigendo risposte e guardando a se stessi.

Fuga o silenzio, come il nonno del ragazzo, Bruno Ganz, che ha trasfromato nell’affabulazione eroica di sè il suo essere stato nazista.
C’è una presa di consapevolezza forte nella posizione di Schroeder che è il rapporto col ruolo della memoria, spesso invocata senza considerarne la debolezza e le modificazioni a cui viene sottoposta secondo chi narra. Da qui la trasmissione di un’esperienza non può essere qualcosa a senso unico ma una messa in questione di sè e dell’altro, come accade nel suo cinema.