Non è proprio un film, certo non è un documentario, Human Flow di Ai Weiwei il famoso artista dissidente cinese, ma piuttosto un’opera attiva, una installazione sul genere umano. Come certi artisti fotografano se stessi nel corso della vita e poi espongono i diversi ritratti, lui espone in questo epico lavoro in concorso a Venezia l’esodo, la lunga teoria epocale dei rifugiati nel mondo contemporaneo con la deflagrante reazione di assistere in diretta al cambiamento epocale. A nulla valgono i servizi quotidiani dei telegiornali, le desolanti diatribe paesane sui quindici ragazzi da accogliere o no, lo sciabordio dei gommoni.

Qui siamo immersi nel flusso costante non solo di popolazioni che si spostano «a piedi» oltre che per mare, attraverso deserti e accanto a fili spinati, ma anche alla lunga teoria di guerre che avvolge tutta la terra. Non vediamo, non calcoliamo, ma piuttosto «sentiamo» e ognuno arriverà alle sue conclusioni su che tipo di mondo vogliamo. Tema dominante di questa edizione si potrebbe dire militante della Mostra di Venezia è proprio l’allarme.

Il senso di compassione che accompagna questo lavoro è dato soprattutto dalla stessa presenza del regista che partecipa insieme alla gente a cancelli sbarrati, mancanza di acqua, trasbordi, attese, tendopoli. E quando il cammino sembra terminato ecco ancora un altro campo e un’altra guerra in corso, un’altra devastazione. Potrà il film tenere testa all’avanzare della cronaca? «Ogni film è una bugia, un film mente sempre, fa un uso limitato della realtà e rispecchia la visione limitata del regista» risponde Ai Weiwei, «ma una volta trovata una prospettiva storica e un linguaggio estetico il film avrà un valore non legato alla cronaca». Come nell’ultima guerra i bambini sembravano partecipare alla grande avventura (e la ricomparsa dei vagoni merci a caricare persone fa rabbrividire), anche qui trovano pietre con cui giocare, palloni da calciare, animali da rincorrere, ma alla fine, nella tendopoli sotto gli hangar di Berlino, una bambina si dice proprio annoiata della lunga teoria delle proibizioni a cui sono sottoposti e pronuncia la tremenda frase: «sono stufa della vita».

Ai Weiwei accompagna quei bambini, gioca con loro, li mostra come un prezioso regalo per il futuro, così come inquadra donne e uomini, stringe loro la mano e scambia il suo passaporto in segno di amicizia e di rispetto. Sempre accanto al verso di un poeta (Adonis, Darwish..) lui stesso figlio di poeta e amico fraterno di Allen Ginsberg, compaiono cifre sulla quantità di rifugiati, numeri incommensurabili come i miliardi snocciolati dagli economisti, non serve riportarle, basta seguire Iraq, la pulizia etnica del Myanmar, gli accampati a Idomeni, siriani e palestinesi in Libano, curdi sulle montagne, Gaza cancellata dalle mappe del mondo, gli afghani deportati dal Pakistan che li aveva accolti («aiutiamoli a casa loro» con un sacchetto di viveri e un po’ di acqua).

Gli elementi visivi come mantelli di carta dorata a riparare dal freddo, uccelli bianchi che attraversano il cielo, il salotto di broccato rimasto unico testimone della casa bombardata, gli uccelli neri che quasi si confondono con le buste di plastica che svolazzano sugli alberi, le pianure arse avvolte dalla polvere ormai senza più vita del Kenya, una tigre in gabbia, i sorrisi e le confessioni, hanno la funzione di strofe di un lungo poema contemporaneo più significativo delle dichiarazioni senza speranza degli esperti e dei rappresentanti delle organizzazioni.