Parlando di una sua precedente silloge, Occhio e assenza, era stato facile prevedere che presto Massimo Triolo ne avrebbe prodotte di nuove: perché lui è, all’evidenza, un poeta mosso da un’esigenza e da un’urgenza – di darsi, di dire. Di vivere l’esistenza raccontandola, traducendola in versi, in parola; per trasferire poi la parola stessa, per effetto di un fecondo circolo virtuoso, in nuova vita, in nuovo sentire. Triolo è, insomma, un autore che potremmo definire generoso, perché non nasconde ciò che vive: dal profondo lo porta alla superficie, lo esprime e condivide. Si avverte, in lui, una cifra di autenticità.

ED ECCO AVVERATA la previsione: nel frattempo sono arrivati puntuali altri volumi, ed è ora recentissimo, da ultimo, Due ali di fiamma, pubblicato dalle edizioni Nulla die (pp. 172, euro 16). Come Occhio e assenza, anche Due ali di fiamma, pur essendo a sua volta una raccolta di poesie, è caratterizzato dalla medesima compresenza di versi e prosa: sia nel senso che, talvolta, le poesie risultano accompagnate da una premessa in prosa che le introduce, sia nel senso che molto spesso la prosa è comunque presente nel ritmo e nell’andatura dei versi.

Rispetto a Occhio e assenza, qui Triolo si concede molto di più al lirismo, in realtà: e in qualche caso perfino al gusto della rima. Ma l’ispirazione rimane fortemente prosastica, perché, al fondo, aldilà della forma, il tono sfiora quasi sempre la narrazione vera e propria (per quanto visionaria).

IL TEMA predominante rimane l’amore, variamente declinato: l’amore, verrebbe da dire, inteso come desiderio di riempire un vuoto, un’assenza, una nostalgia. Il sé che parla, lungo l’intero corso della silloge, è un sé frantumato, lacerato, come minimo disilluso: ma più probabilmente ferito tout court, dolorante.
È un sé che va in cerca di sintonia con il mondo pur consapevole del fatto che la ricerca potrebbe essere vana, se non lo è senz’altro. «Conosco i miei mali,/ e ne sono innamorato» leggiamo infatti in Orizzonte (ma è solo un esempio): «ciò che vale a dire:/ resterò alla deriva».

È un sé solitario, quasi eremitico, al quale tuttavia la solitudine non impedisce di continuare a cercare. Come leggiamo in Qualcosa di puro, per fare un altro esempio: «C’è bisogno di qualcosa di fresco da respirare/ per tornare a cantare/ e sentire il respiro di questo dire». E può bastare poco, anche pochissimo: anche solo «piaceri minimi», anche solo «pane-zucchero-e-vino» (di nuovo da Qualcosa di puro).

DAL SUO ANGOLO di poesia, Triolo guarda il mondo che ha davanti con disincanto ma con amore, e canta la vita accettandone il male insieme al bene: «Non so dire di che ogni momento rinasce e muore –/Altrove». Ed è facile prevedere nuovamente che il canto proseguirà.