Una barca a fuoco in mezzo al mare, un mare pavimentato di morti che vengono a galla. Il tremendo è qui, ora. Un’immagine che si fatica persino a dire apocalittica, ché di fronte ad essa si può solo fare silenzio. Tutto il resto è schiuma, parole balbettate per articolare lo sgomento. Ma il silenzio è una virtù non praticata, in questo tempo, che è il tempo del troppo pieno.

Siamo incapaci di fermarci di fronte a quei corpi dilaniati dal fuoco e dall’acqua, incapaci di ascoltarli. Non è il tempo del rispetto, questo, né della vergogna (e su questo mi trovo per una volta concorde con le parole di un prete di alto rango). Se fossimo capaci di silenzio, rispetto e vergogna, sapremmo che quel massacro che ci affiora oggi davanti agli occhi è un massacro costante, continuo, cadenzato, che fa del Mediterraneo il cimitero più popolato del nostro mondo. Ma preferiamo non vedere, negare. Sì, siamo negazionisti: sui nostri mari c’è una “tempesta devastante” (una shoah, appunto) e noi fingiamo – con gli occhi, con il cuore – che nulla accada. Quei pescatori che non si fermano mentre ci sono uomini che affogano non sono mostri. Lo fanno perché rischiano di vedersi sequestrata la barca per colpa di una legge assassina. Si limitano a obbedire alla legge. Non sono mostri, sono come noi: sanno, e fingono di non sapere, perché la legge li ha ridotti a pensare solo alla propria salvezza.

Poi ci sono quelli di noi (e uso “noi” per designare i cittadini italiani, per quanto non senta con molti di loro alcuna comunanza) che rivendicano con orgoglio la propria ferocia. In rete, ad esempio, all’apparire della notizia, sono subito cominciati a fioccare parole come neve che cade dal cielo già marcita. Gente che non riesce a far spazio all’umano, mai – che non sa, con ogni evidenza, conoscersi in quanto umana. Gente che si scaglia, ad esempio, contro il buonismo dell’Italia: ma quale buonismo? Fingono di non vedere che abbiamo la legge più repressiva ed escludente, quella legge firmata da quei due trapassati della politica che sono Bossi e Fini? Entrare regolarmente in Italia è un’impresa improba, più che altrove in Europa. I tribunali sono affollati di processi per il reato di clandestinità. Il sistema repressivo fondato sui Cie non funziona, è solo una spesa enorme senza risultati. L’accoglienza nei confronti dei rifugiati è inesistente. Del resto per i migranti eritrei, che erano una parte cospicua del barcone dei cinquecento, l’Italia è solo un paese di transito: è a nord che vogliono andare, l’Italia a chi fugge dall’oppressione e dalla guerra non offre niente. Quello che lascia basiti, a leggere il profluvio di parole gonfie di odio talvolta insaputo, è il grado di ignoranza così diffuso rispetto alla realtà, e l’arroganza con cui questa ignoranza viene proferita.

C’è una vera e propria sindrome allucinatoria e persecutoria di molti italiani, che fantastica carte di identità subito per tutti, la possibilità per gli immigrati di non lavorare, la libertà di girare indisturbati per loro, di avere case e lavoro immediatamente. Deliri costruiti su fantasie patologiche, che però formano il materiale del giudizio di molti elettori. (del resto a legittimarle c’è la barbara demenza di un Langone, per dire, che sul Foglio scrive contro gli “invasori”).
Ma un appunto va fatto pure al presidente: stroncare il traffico, dice. Quello è il rimedio, signor presidente? Davvero la responsabilità è solo degli scafisti? Davvero non la sfiora l’idea che se rendi illegale la possibilità di muoversi da un paese all’altro, per ciò stesso sei tu a produrre gli scafisti? Davvero non le viene in mente che si tratta ripensare dalle fondamenta le politiche migratorie? Davvero un governo appena decente può pensare di non rimettere mano alla Bossi-Fini (cosa che non ha fatto del resto il governo Prodi) e farsi promotore in Europa di un’altra modalità di gestione dei flussi migratori? Rivedere le leggi, ecco che cosa dovremmo fare se sapessimo fare silenzio. Ma non succederà. Domani, sarà semplicemente un altro giorno.