Nell’ufficio della procura in Bosnia-Erzegovina sono piovute ventidue denunce in dieci giorni, tutte contestano lo stesso reato: aver negato il genocidio di Srebrenica. La prima è stata sporta da Camil Durakovic, ex sindaco della cittadina, teatro della più aberrante pagina che sia mai stata scritta nella storia del secondo dopoguerra in Europa, contro Branimir Djuricic, giornalista dell’emittente pubblica della Republika Srpska (una delle due entità di cui è composta la Bosnia-Erzegovina, a maggioranza serba, ndr).

Da appena un giorno era entrata in vigore nel Paese la modifica al codice penale voluta dall’Alto rappresentante dell’Onu, Valentin Inzko, che prevede la reclusione da 3 mesi a 5 anni per chi nega il genocidio di Srebrenica e glorifica i criminali di guerra, che essi siano serbi, croati o bosniaco-musulmani.

Per la prima volta dopo più di decennio il «guardiano dei trattati di pace», figura prevista dagli accordi di Dayton che misero fine alla guerra degli anni Novanta, è ricorso nuovamente ai cosiddetti poteri di Bonn per imporre una legge nel Paese, concludendo quello che era stato un tacito accordo della comunità internazionale: interferire il meno possibile negli affari interni, lasciando che il Paese camminasse – dentro gli accordi di Dayton – con le proprie gambe.

Dopo 12 anni, a fine mandato, Inzko ha ammesso che il calcolo era sbagliato: le fondamenta dello Stato erano ancora troppo fragili, il processo di riconciliazione, appena iniziato, non era ancora maturato. La diffidenza alimentata dalla retorica nazionalista ha preso il sopravvento sulla condivisione della memoria e questo non ha fatto altro che approfondire ancor di più le divisioni create dalla guerra. La riprova del fallimento del processo di riconciliazione sta nella stessa necessità di un intervento esterno per porre un argine ai deliri nazionalisti che negano un’evidenza storica, con il rischio per di più che questi stessi deliri siano amplificati piuttosto che ridotti.

Da una parte, infatti, l’introduzione del reato ha portato a un beneficio immediato: non solo sono iniziate a fioccare le denunce, ma anche il linguaggio sui social è stato più contenuto. Quando è stata annunciata la decisione di Inzko, il portale di giornalismo investigativo BIRN ha contato 70 post negazionisti su Twitter, un numero calato drasticamente nei giorni successivi all’entrata in vigore del provvedimento, appena 4 dopo una settimana.

A livello istituzionale e politico, invece, la reazione dei rappresentanti della Republika Srpska è stata violenta e quel che è peggio, compatta. Dapprima maggioranza e opposizione hanno minacciato il blocco delle istituzioni, dopo hanno approvato insieme una legge per impedire l’applicazione del divieto nell’entità a maggioranza serba.

«Chiedo a tutti in RS di riferire agli organi di polizia competenti qualsiasi informazione su possibili azioni della SIPA (polizia di stato bosniaca) o dei servizi di intelligence», ha tuonato il membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, che ha definito la decisione di Inzko «l’ultimo chiodo sulla bara della Bosnia-Erzegovina».

Solo poche settimane fa, il sindaco di Banja Luka e leader dell’opposizione serbo-bosniaca, Draško Stanivukovic, aveva incontrato nel capoluogo della RS la sindaca di Sarajevo, Benjamina Karic. L’abbraccio tra i due leader della generazione del dopoguerra aveva aperto un timido spiraglio per rimettere in moto quel meccanismo interrotto dieci anni fa. Quello spiraglio sembra quanto di più lontano ora che l’opposizione si è allineata alla maggioranza, facendo cadere l’ennesima maschera di un cambiamento mai realmente maturato.

A gettare benzina sul fuoco anche il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic e del ministro degli Esteri croato Grlic Radman, che hanno espresso delle perplessità sulla decisione dell’Alto rappresentante e sulla sua stessa figura, definita da Radman un «relitto del passato». E d’altronde l’elezione del successore di Inzko, Christian Schmidt, è stata duramente contestata da Mosca che in una sessione del Consiglio di Sicurezza Onu ha cercato di impedire la nomina con l’obiettivo di cancellare del tutto l’istituzione e magari spianare la strada a una definitiva implosione della Bosnia.