Quando in Europa arrivarono i Sapiens, il Neanderthal era già in crisi. E, quando una specie è in crisi, finisce inesorabilmente per estinguersi. È solo questione di tempo. I cambiamenti climatici, nel Pleistocene, furono repentini. Le piante e gli animali, quando poterono, si spostarono. Homo neanderthalensis dovette ricostruirsi esperienze e tradizioni. Lo stress cui la specie fu sottoposta portò al ristagno genetico; questo alla diminuzione demografica. Superata la soglia critica, la sua sopravvivenza fu compromessa. Il patrimonio genetico tuttavia non andò perduto, perché alcuni gruppi di Neanderthal si incrociarono con noi Sapiens. Quanto alla cultura, difficile dirlo.
Resta una certezza: hanno vissuto più a lungo di noi, oltre 250mila anni per disegnare una parabola biologica intensa. Sappiamo della loro esistenza dal 1864. Le prime ossa furono rinvenute nella Valle di Neander, alle porte di Düsseldorf. Il fossile meglio conservato, settantacinque anni dopo, sarebbe invece emerso presso San Felice Circeo, quando Alberto Carlo Blanc trovò l’entrata di Grotta Guattari e un cranio straordinariamente integro, conservato al Museo delle civiltà dell’Eur. Fu una meteora. Blanc, prima di morire, si imbatté soltanto in tanta fauna e pietra lavorata. Due frammenti di mandibola, e non per merito suo, parvero le uniche promesse mantenute. Fu così che la grotta divenne un fardello per la comunità scientifica, mentre i Neanderthal ascendevano allo status di alter ego sfortunato, seppure tenero, di un’umanità maggiore.
Nel fumetto Topolino all’età della pietra, Oompa comunica a gesti con il paziente professor Ossivecchi. Java, il miglior amico di Martin Mystère, è simpatico ma muto. Però i Neanderthal sono i primi uomini europei: magari tanto trogloditi non saranno stati. Peccato che, secondo una ricerca pubblicata da Svante Pääbo sulla rivista Pnas, un gene da loro tramandato aumenterebbe il rischio di ammalarsi gravemente di Covid-19.
Nel frattempo, parallelamente al prosieguo della fiction, per tre anni Angelica Ferracci, Maurizio Gatta e Damiano Portarena tornavano a scavare Grotta Guattari, fino a restituirci frammenti di nove Neanderthal. Li ha diretti Mario Rolfo, docente di archeologia preistorica all’Università degli studi di Roma Tor Vergata.

Professore, perché dopo quasi settant’anni avete ripreso le indagini sul sito di Guattari?
La ricerca è partita nel dicembre 2018, quando la Soprintendenza decise di celebrare gli ottanta anni della scoperta di Blanc. Nel maggio 2019, in occasione dell’evento finale, la Soprintendenza propose nuove analisi sul cranio. Risposi che sarebbe stato difficile convincere i funzionari del Muciv. E che non avremmo dovuto guardare il dito, ma la luna: il deposito reale. Lo scrigno è Grotta Guattari, una capsula temporale bloccata da una frana 60mila anni fa. Da allora, lì è il tempo a essersi fossilizzato.

Lo considera un luogo magico?
Incompiuto, direi. Ne ha scritto anche Antonio Pennacchi. Dal 1939 al 1953 vi scavò Blanc. Dopo, ebbe inizio una complicata gestione. Nel 2019 il Comune è riuscito ad acquisire il terreno necessario per consentire l’accesso, ma ancora dobbiamo attraversare giardini privati. Quando scaviamo ci sono i bagnanti; sulla grotta insiste una casa abusiva; il sito non è mai stato aperto al pubblico. Nel 1989 fu organizzato un convegno, quindi ricadde nel dimenticatoio. Una riqualificazione era doverosa. I lavori in corso sono stati avviati soprattutto per creare un nuovo percorso di visita, con una realtà aumentata.
Contestualmente abbiamo iniziato a ripulire le sezioni abbandonate. È nata così l’idea di effettuare un sondaggio in una zona finora trascurata. Trovato il cranio in una delle sale più interne, Blanc aveva pensato di raggiungerla con una trincea a partire dall’esterno, sperando di identificare un percorso frequentato dai Neanderthal. Quando trovò un laghetto, oggi riempito dall’acqua per sei mesi l’anno a causa della risalita di una falda, lo aggirò sulla destra.

Grotta Guattari. Foto di Emanuele Antonio Minerva

Avete scommesso sull’integrità di quest’area?
Appariva totalmente ricoperta da concrezioni stalagmitiche. Rimuovendole, abbiamo identificato una paleosuperficie abitata dalla iena, che 60mila anni fa vi portò di tutto, compresi i resti di otto Neanderthal. La iena è cacciatrice: mangiava le prede dove le catturava, ma doveva portare nel riparo parti scelte degli arti e i crani per sfamare i cuccioli. E nel record faunistico della iena c’è anche l’uomo di Neanderthal. Gli antropologi tendono all’antropocentrismo, cercando giustificazioni: in tanti hanno proposto che si trattasse di sepolture in grotta di cui sarebbe stato fatto scempio solo in un secondo momento, ma le ossa furono sgranocchiate. La realtà è sempre banale. Possiamo consolarci con una constatazione: di Neanderthal dovevano essercene tanti, se tanti se ne cacciavano. Inoltre, le vittime potevano essere malate o già morte. Ce lo diranno meglio gli studi e i prossimi scavi, che inizieranno a giugno e andranno avanti per l’intera estate.

È interessante anche l’esterno della grotta?
Certo, perché l’uomo non ha motivo di inoltrarsi nelle grotte; ne preferisce i cornicioni esterni, se non altro per ripararsi dalla pioggia. E infatti lì, lavorando alla nuova pavimentazione, abbiamo evidenziato tracce della presenza di Neanderthal vivi: ossa bruciate, oggetti in pietra, animali cacciati. Il livello, datato tra 80 e 100mila anni fa, è più antico. Purtroppo Blanc aveva sterrato, per cui abbiamo trovato un solo osso umano – un metatarso – del quale mai potremo ricostruire la storia. In questo settore, credo che scaveremo anche in autunno.

È rimasto sorpreso dall’eco suscitata dalla scoperta?
Mi dispiace rilevare sempre il feticismo che circonda il Neanderthal. Lui è l’altro: prima o poi avvertiamo il diritto del paragone. È stato chiamato «cavernicolo», ma sa seppellire, produrre arte e oggetti funzionali. Il confronto con la nostra specie, se proprio necessario, che sia almeno sincronico. I Neanderthal si estinsero 40mila anni fa. A volte si parla di Sapiens prendendo a esempio le grotte dipinte di Lascaux, datate 17mila anni fa. Eppure tra Neanderthal e Lascaux passa più tempo che tra Lascaux e la Cappella Sistina, oltretutto opere della stessa specie. Un paradosso.

Quale sarà l’obiettivo dei prossimi studi?
Capire come è cambiato il clima tra 125 e 60mila anni fa e, di conseguenza, come si sono evoluti gli animali, le piante, la morfologia del territorio pontino. Dobbiamo ricostruire il fondale scenico sul quale porre i due attori di Grotta Guattari: Neanderthal e iena. Il primo è scomparso da 40mila anni, la seconda da 20mila. Cavalli pleistocenici, elefanti e rinoceronti: anche loro, a mano a mano, sono usciti dalla recita. Alla fine sono arrivati i lupi. E i Sapiens.
La sfida non è rilanciare con grandi domande, ma ricostruire la vita quotidiana. Come si sopravviveva alle crisi? La preistoria è un’epica di migrazioni: i gruppi umani si spostavano continuamente non per passione e curiosità dell’ignoto, ma per reagire ai cambiamenti climatici. La preistoria è anche un romanzo di incontri: perfino Sapiens e Neanderthal si sono ibridati.

 

SCHEDA

La studiosa di preistoria Marylène Patou Mathis ha recentemente pubblicato il saggio L’homme préhistorique est aussi une femme (Allary Éditions, pp. 352, euro 21,90), la cui traduzione italiana, a cura di Giunti Editore, è prevista entro la primavera 2022. L’autrice, specialista dei Neanderthal e direttrice del Centro nazionale di ricerca scientifica francese, è partita da una semplice constatazione: nella preistoria non esisteva solo l’uomo. Il saggio approfondisce la storia dell’evoluzione per decostruire i processi che hanno reso le donne invisibili nel corso dei millenni: immaginare che passassero le giornate a spazzare le grotte e a crescere bambini non è altro che un ridicolo pregiudizio di genere.