La breve illusoria tregua tra la prima e la seconda ondata dell’epidemia ha lasciato il tempo di riflettere sui modi, le politiche e le narrazioni che hanno segnato la prima insorgenza della malattia dandoci così la possibilità di confrontarci forse più consapevolmente con la seconda. Si può partire, a questo scopo da un pamphlet del sociologo Andrea Miconi che si propone di prendere in esame la rappresentazione dell’emergenza epidemica nei media e nel discorso pubblico e dei suoi effetti sul corpo sociale e sulle sue «tonalità emotive» (Epidemie e controllo sociale, manifestolibri, pp. 128, euro 10)

VOLGENDOSI INDIETRO alla prima fase, (a smentita del patetico auspicio scritto e dipinto per ogni dove) non si può che concludere con il titolo che Miconi ha voluto dare all’ultimo capitolo del suo pamphlet: «non è andata bene». Ne sono testimoni i dati dei contagi e dei morti, la strage del personale sanitario, i ritardi di ogni genere e soprattutto nello sblocco dei finanziamenti, l’affollamento sui mezzi di trasporto e nelle fabbriche che non ha comunque mitigato il disastro economico, l’oscurità tortuosa delle procedure e delle norme affidate all’interpretazione frequentemente ottusa e vessatoria delle forze di polizia. Ce n’è insomma a sufficienza per smontare la leggenda autoconsolatoria del «modello italiano». Il quale, se qualcosa ha messo in luce, è ancora una volta la spaventosa mediocrità della classe dirigente di questo paese. Non del solo governo, sia chiaro, ma degli «scienziati» che si sono susseguiti in una corrida di giudizi, ricette e reciproci insulti, dei media intenti a intonare fischi o applausi secondo le forze politiche di riferimento, della Confindustria che a forza di sovvenzioni, privilegi e libertà illimitata di azione promette di salvare tutti. Per non parlare di una opposizione alla sola ricerca dei mutevoli umori da blandire e che comunque governa saldamente l’Italia settentrionale, epicentro non casuale della catastrofe. Fino al delirio paranoico degli ideologi complottisti, che in nessun modo vanno confusi con quanti indagano gli interessi occulti e i disegni eversivi che sottendono specifici eventi storici. Wu Ming 1 spiega bene la differenza negli articoli usciti su «Internazionale».

Eppure questa classe dirigente è riuscita, oltre che ad autoassolversi, a farsi assolvere dalle sue responsabilità attraverso un dispositivo di controllo sociale e una narrazione che Miconi definisce «colpevolizzazione del cittadino». In verità si tatta di un’attribuzione di responsabilità che alterna lo stigma dell’indisciplina, al paternalistico apprezzamento del comportamento virtuoso, alimentando così un clima di delazione e ostilità. Cosicché il compiaciuto o rassegnato «io resto a casa» si trasformava nel ringhioso «c’è troppa gente in giro».

«COME SI SPIEGA – scrive l’autore – che proprio il paese dell’odio conclamato verso la Casta abbia finito per reggere il gioco alla classe dirigente, liberandola di ogni responsabilità, e scatenando la caccia selvaggia all’indisciplinato del piano di sopra?». Miconi vede una possibile risposta a questo interrogativo nell’inclinazione del cosiddetto populismo a indirizzare l’aggressività concreta verso il basso, verso le differenze e le alterità che popolano la vita quotidiana e che non si sciolgono senza residui nella mitica armonia della «comunità», nel nostro caso i cittadini che cercavano di sottrarsi, se non altro, alle più assurde (e ce ne sono state a iosa) tra le limitazioni loro imposte. Ciò che di più odioso vi è stato nella selva di regole promulgate nel corso della prima fase dell’epidemia è stato il prevalere della partizione tra necessario e superfluo sulla più ragionevole distinzione tra pericoloso e innocuo.

Questa scelta di stampo moralistico ha condotto alla demonizzazione e conseguente repressione di ogni «attività ludica», anche la più protetta e solitaria, e di contro alla leggerezza micidiale applicata invece alle più esposte e pericolose attività produttive.
«Ma la notte no!» cantava Renzo Arbore negli anni ’80 e il ritornello torna a risuonare, rovesciato, in mezza Europa nei decreti e nelle ordinanze che si prefiggono di cancellare quel regno tenebroso del vizio, della devianza e dell’irregolarità che è appunto la notte. Uno dei tanti slittamenti dai seri problemi strutturali, tutti rimasti irrisolti, alle piccole emergenze di comodo.

LE DESTRE, che generalmente sguazzano nell’enfatizzazione dell’emergenza, della criminalità, della droga, dei migranti, della protesta sociale, questa volta minimizzano, poi accusano il governo di debolezza o sventolano, secondo le circostanze, la bandiera della libertà d’impresa o quella delle libertà personali. Tema quest’ultimo che in nessun modo può essere lasciato nelle mani di quanti ne coltivano versioni suprematiste, xenofobe, escludenti e proprietarie sulla scia del conservatorismo americano acclamato nei raduni dei no mask, modesti in Italia, ma di preoccupanti dimensioni in paesi come la Germania.

Alla fine dei conti però, la destra politica e ideologica che con lo stato di eccezione intrattiene un rapporto di consanguineità, di fronte al connubio tra «la logica economica del profitto e quella muscolare dello stato» non può che inchinarsi. Semmai rimprovererà ai governanti di non essersi spinti sufficientemente avanti in questa direzione. Anche se, senza un disegno preciso, qualche seria premessa per l’inasprirsi del controllo sociale è stata effettivamente posta.