Le edizioni romane Bordeaux mandano in libreria – anche se saranno poche le librerie che si daranno da fare per farlo leggere – un saggio-memoria-autobiografia insolito di Georges Navel (1904-1993) che ha per titolo Lavori (Travaux). Lo ripubblicò Gallimard nel 2004, ma la prima edizione era del 1945. Ne fu promotore e sostenitore il filosofo Bernard Groethuysen.

L’edizione italiana, ci racconta Claudio Panella in una bella prefazione che meritava forse una maggiore ampiezza, ha aspettato anni per uscire, nell’ottima traduzione di Annalisa Romani, perché da Einaudi non si misero d’accordo nel loro giudizio sul libro i vari redattori interessati (da Vittorini a Fruttero) e soprattutto, credo, perché l’editore aveva già in campo i romanzi operai di Luigi Davì (troppo dimenticato!) e stava trattando un romanzo di Roger Vailland (325mila franchi) che però venne pubblicato solo dopo che Vailland aveva vinto il Goncourt per La legge, un romanzo piuttosto folklorico sugli usi e costumi dei contadini del nostro Sud. Ma non solo Groethuysen sostenne la pubblicazione di Lavori, di cui scrisse la prefazione un poeta un tempo celebre per le poesie d’amore di Toi et moi, Paul Géraldy.

La letteratura che possiamo genericamente definire operaia o industriale o di fabbrica, vanta in Italia, oltre Davì, due esempi eccelsi in alcune opere di Ottiero Ottieri e di Paolo Volponi, grandi scrittori oltre che grandi conoscitori del mondo industriale e del lavoro di fabbrica, da funzionari e membri ascoltati della Olivetti. È anche sulla loro scia che negli anni 80 la collana feltrinelliana dei «franchi narratori», la cui storia andrebbe ripercorsa, per recuperarne oggi i suoi insegnamenti e la sua diversità rispetto alla massa della produzione attuale, quando troppi scrivono (ah! le scuole di scrittura…) ma i veri scrittori sono pochi, ed è più che mai giusta la vecchia distinzione di Elsa Morante tra «gli scrittori» – pochi! – e «gli scriventi» – troppi!

Tra questi ultimi non sono rari quelli che sarebbe stato meglio collocare tra i «franchi narratori» – ché sì, il diritto di scrivere e raccontarsi è rispettabile, pur se il giudizio critico è indispensabile, per non confondere i pochi scrittori veri dalla massa degli editati. In alcune generazioni i bravi scrittori sono più rari (e accade oggi), mentre sono stati più numerosi e significativi ieri per motivi storici ambientali, esperienziali.

Due «franchi narratori» di ieri che seppero narrar bene la loro esperienza di operai di fabbrica furono il ligure Vincenzo Guerrazzi e il pugliese Tommaso Di Ciaula. Una (parziale) diversità di Navel rispetto ai loro racconti è il confronto del lavoro di fabbrica con quello agricolo, campestre. Gli operai di un tempo avevano spesso un passato contadino, e ricordo ancora tanti operai della Fiat degli anni 50 e 60 che scendevano dalle valli piemontesi o raggiungevano Mirafiori in bicicletta, giorno dopo giorno, venendo dai piccoli centri contadini limitrofi. E quanti di loro non sognavano l’età della pensione sui luoghi della loro infanzia, dove spesso erano rimasti i loro vecchi o avevano un pezzo di terra – come Navel con il suo frutteto.

Lavori è un libro molto bello per il vigore e la pulizia del racconto, che Jean Giono (a proposito: ci sono ancora in giro edizioni accessibili di L’ussaro sul tetto? o del gioiello pre-ecologista L’uomo che piantava gli alberi?) definiva l’opera di un «Esiodo sindacalista»… La pulizia e la forza del racconto servono alla descrizione di una condizione peggio che faticosa, di prima che il macchinismo industriale riducesse la necessità del lavoro proletario. Ma se le condizioni del lavoro sono cambiate, certo non sono sempre cambiate in meglio, a giudicare dalla quantità di incidenti sul lavoro di cui le nostre cronache sono piene.

L’ex-operaio della Citroën Georges Navel sapeva raccontare assai bene «la tristezza operaia» ma anche la solidarietà e la vitalità operaia non avvilita del tutto dalla fatica e dalla ripetizione – pure se alcuni lettori come Calvino vedevano in quegli anni nel lavoro di fabbrica, proprio discutendo di questo libro, anche «una via di libertà», e nella comunità operaia la presenza di «gente allegra».