«Sono a Mashhad, circondata da donne piangenti con il make-up indistruttibile. Perché il vostro trucco non cola? Perché abbiamo tutte il trucco permanente. Tua nonna lo desiderava tanto anche lei, aveva l’appuntamento tra dieci giorni». Viene da sorridere leggendo il bel romanzo Sedici parole di Nava Ebrahimi dato alle stampe da Keller (traduzione dal tedesco di Angela Lorenzini, pp. 330, euro 18). La protagonista è Mona, una giovane donna che torna in Iran per il funerale di quella nonna testarda e orgogliosa, anticonformista, con la battuta sempre pronta e spesso inappropriata. Mentre le cugine piangono l’anziana, Mona si sente un’estranea nel paese dov’è nata. Rimpiange la serata di musica e birra con gli amici, poco prima di prendere l’aereo per Teheran. Eppure, Mona si sente fuori posto anche in Germania, dov’è emigrata con la madre a soli quattro anni: i tedeschi l’hanno sempre fatta sentire straniera ed etichettata come musulmana.

In Iran, Mona era già tornata dopo gli studi universitari: il caporedattore del quotidiano tedesco con cui collabora le chiede se è iraniana e, senza attendere risposta, la incarica di andare sul posto ad aiutare il corrispondente da Teheran. Poco importa se Mona non ci torna da quando è bambina. Lavorando nella Repubblica islamica come giornalista, Mona si sente tedesca come in nessun altro luogo. In un secondo si rende però conto che in Iran non è tedesca ma iraniana: in caso di arresto, l’ambasciata tedesca non potrebbe far nulla per lei. Il romanzo «Sedici parole» si sviluppa attraverso alcuni termini in persiano tra cui «maman bozorg »(la nonna), «khastegar» (il pretendente), «mordeshur» (il lavamorti). Le parole più significative sono forse «dorugh» e «azadì». In persiano «dorugh» vuol dire menzogna e assomiglia un poco a «Trug», che in tedesco vuol dire la stessa cosa: si mente per coprire l’infedeltà coniugale, per salvare la pelle, diventando così bravi da farne un’arte. L’altra parola chiave è «azadì», libertà. Agognata dagli iraniani, in ogni epoca.

A questo proposito, è importante tornare ad accendere i riflettori sul regista iraniano Jafar Panahi perché il 20 dicembre ricorrono dieci anni dalla condanna inflittagli dalla magistratura di Teheran. Viene arrestato il 1° marzo 2010 mentre si trova in casa, con i famigliari e i colleghi. Il giudice lo accusa di sedizione per un film di cui è stato girato un terzo delle scene. Nell’arringa difensiva, il regista afferma: «Come può essere sedizione un film girato per un terzo?» E fa un paragone geniale: «la frase ’Non c’è dio all’infuori di Dio’, se presa per metà diventa una dichiarazione di ateismo». Il giudice lo condanna a sei anni di carcere e gli vieta per vent’anni di girare film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste e lasciare il paese, eccetto per effettuare il pellegrinaggio alla Mecca e per cure mediche. In realtà, il provvedimento di carcerazione non è stato finora messo in atto, e il regista non ha rispettato il divieto di produrre film tant’è che in questo decennio ha girato This is not a Film (2011), Closed Curtain (2013) e Taxi Teheran (2015). Tre pellicole portate fuori dall’Iran in chiavette USB.

«Militante islamista prima della Rivoluzione del 1979, regista di film di propaganda religiosa agli albori della Repubblica islamica, dopodiché fautore di un pensiero umanista contro ogni fanatismo. Carattere intransigente, poco incline alla conciliazione. Potrebbe farla franca, ma a costo di piegare la testa. E lui non ci sta». Così lo definisce Claudio Zito nell’interessante saggio Visioni di contrabbando. Il cinema inarrestabile di Jafar Panahi (Digressioni Editore, pp. 114, euro12).

Fondatore di Cinema iraniano blog, unico portale in lingua italiana interamente dedicato al cinema persiano, Zito ricorda come Panahi non si sia piegato ai diktat degli ayatollah, ma nemmeno a quelli di un certo Occidente: il 15 aprile 2001 è in volo da un festival a Hong Kong a un altro evento a Buenos Aires e fa scalo all’aeroporto internazionale JFK di New York. Il visto non è necessario per chi fa scalo, ma la polizia statunitense pretende di scattargli una foto e rilevargli le impronte digitali. Panahi si rifiuta e finisce incatenato a una panchina per dieci ore: non potrà imbarcarsi per Buenos Aires e sarà rispedito a Hong Kong. Sono queste vicende a trasformare la settima arte in una forma di dissidenza politica. Ma non era questa l’intenzione di Panahi, che ama ripetere di volere «un cinema sociale ma non politico, perché l’arte politica ha una data di scadenza mentre l’arte sociale è un documento storico».