Il 14 maggio, il diciottenne suprematista bianco Payton Gendron uccise dieci afroamericani in diretta streaming sparando in un supermercato di Buffalo. Nel suo pc la polizia trovò un manifesto di 180 pagine in cui riportava le motivazioni della strage. Tra un elogio ad altri sparatori – tra cui il «nostro» Luca Traini – e l’altro, nel manifesto comparivano grafici e figure tratte da una ricerca pubblicata da una rivista autorevole come Science nel 2008. Secondo il killer, lo studio dimostrava che l’umanità è divisa in «razze» in competizione tra loro. In realtà, la ricerca citata non aveva quell’obiettivo. Ma la scarsità di informazioni genetiche sulle popolazioni africane le fa spesso classificare come un unico gruppo omogeneo – una razza – e gli scienziati, raccontano ora gli stessi autori di quella ricerca, sottovalutano l’importanza dei pregiudizi nascosti nei dati.

L’USO A SCOPO RAZZISTA della ricerca scientifica è un fenomeno crescente e che non può più essere sottovalutato. La rivista Nature, insieme a Science la più autorevole al mondo, ha deciso di assumersi le sue responsabilità. Per la prima volta nei suoi 150 anni di storia, il numero di questa settimana non è curato dalla tradizionale redazione ma è affidato a quattro scienziate e scienziati neri: Melissa Nobles, Chad Womack, Ambroise Wonkam e Elizabeth Wathuti. Il titolo di copertina non gira intorno alla questione e recita «Razzismo: superare il retaggio tossico della scienza». Il numero è un durissimo atto di auto-accusa a una comunità scientifica che, anche inconsapevolmente, perpetua molti pregiudizi del suprematismo bianco. Nature, dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia statunitense ha deciso di lavorare nella direzione opposta.
Quello di oggi è un volume da conservare perché espone tutti i modi in cui la scienza, apparentemente neutra, coltiva stereotipi razzisti. Lo fa, ad esempio, negli innocui saturimetri tanto usati durante il Covid-19, che in fase di sviluppo sono stati testati solo sui pazienti bianchi. E così hanno segnalato un’ossigenazione errata in molti neri, che hanno ricevuto cure in ritardo e sofferto tassi di mortalità più elevati. Succede in campo genetico: molte banche dati usate dai ricercatori sottostimano i campioni genetici relativi alle popolazioni africane distorcendo i risultati e, come mostra il caso di Buffalo, prestandosi a strumentalizzazioni da parte della destra.

I RICERCATORI INTERVISTATI da Nature raccontano le discriminazioni nascoste nel quotidiano della vita universitaria a partire dagli aspetti più banali: dal diritto a usare il parcheggio – all’astrofisica Martha Gilmore capita di sentirsi dire «Ehi, qui è riservato ai ricercatori» – alle conferenze in cui, racconta il geologo Christopher Jackson, i colleghi lo scambiavano spesso per il tecnico addetto all’audio, perché un ricercatore nero è una rarità. «Gli scienziati sono troppo intelligenti e liberal per essere razzisti» è, a sua volta, un pregiudizio, racconta Jackson che per questo ha lasciato l’università di Manchester (e dieci milioni di finanziamenti ottenuti grazie ai propri studi).
Anche nelle altre università del Regno Unito, dove ha sede Nature, l’eredità dell’imperialismo e del colonialismo si fa ancora sentire. Soprattutto quando si tratta di rivedere il giudizio su scienziati inglesi del passato illustri ma innegabilmente razzisti come il genetista Francis Galton o lo statistico Karl Pearson. Scienza e colonialismo d’altronde si intrecciano sin da quando James Cook fu inviato a Tahiti con la missione ufficiale di osservare il pianeta Venere, e quella segreta di conquistare i nuovi territori australiani al regno britannico, come ricordano i «guest editor». Il nodo adesso va sciolto.