Ha reagito con sdegno il ministro della giustizia libanese Ashraf Rifi al discorso pronunciato martedì da Hassan Nasrallah, segretario generale del movimento sciita libanese Hezbollah. «Non abbiamo parlato finora dell’Iraq, ma abbiamo una limitata presenza (nel Paese) a causa della fase delicata che l’Iraq sta attraversando», ha detto Nasrallah. Secondo Rifi questa ammissione e l’esortazione del leader sciita a tutto il Libano ad unirsi alla battaglia in Siria contro l’Isis e i qaedisti di al Nusra – «A coloro che ci chiedono di ritirarci dalla Siria – ha affermato il leader di Hezbollah – io dico: Andiamo insieme in Siria e in Iraq e in ogni altro posto dove vi sia una minaccia per il futuro delle nostra nazione» – confermerebbe un totale asservimento del movimento sciita agli interessi strategici dell’Iran. Il commento di Rifi si unisce all’appello a ritirarsi dalla Siria che l’ex premier sunnita e leader del partito antisiriano Mustaqbal, Saad Hariri, ha rivolto a Hezbollah al suo rientro in Libano, in occasione dell’assassinio del padre, Rafik, avvenuto 10 anni fa sul lungomare di Beirut. E anche alla dura condanna del discorso di Nasrallah pronunciata ieri dal deputato, sempre di Mustaqbal, Ahmad Fatfat. Commenti che fanno sorridere. Come se il Libano, senza Hezbollah, fosse un paese libero dal controllo straniero. Come se, una volta rientrati a casa i combattenti sciiti, non ci fossero in Siria tanti altri libanesi, pagati da generosi finanziatori del Golfo, che combattono contro l’esercito governativo nei ranghi al Nusra, dell’Esercito siriano libero e anche dell’Isis.

 

Hariri e il suo partito sono l’espressione politica più compiuta della longa manus dell’Arabia saudita sul Paese dei Cedri. Rappresentano gli interessi di Riyadh in Libano. E nonostante le sue recenti condanne del salafismo radicale, a Tripoli, storica roccaforte sunnita, Hariri con i suoi soldi ha contribuito a tenere aperte non poche delle moschee e delle scuole coraniche che hanno allevato gli avversari (armati) degli alawiti libanesi e di non pochi jihadisti poi finiti in Siria, nelle milizie schierate contro le forze armate governative. L’attuale premier libanese Tammam Salam non avrebbe potuto sedersi sulla poltrona che occupa senza l’appoggio dell’Arabia saudita. E non si può dimenticare l’influenza degli Stati Uniti e della Francia sulle scelte delle forze politiche libanesi dello schieramento filo-occidentale “14 marzo”. Non pochi libanesi descrivevano come “il vero primo ministro” Jeffrey Feltman, ex ambasciatore degli Usa a Beirut tra il 2004 e il 2008 (anni caldissimi per il Libano), poi assistente del Segretario di Stato per il Medio Oriente. Da parte sua l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy impartiva veri e propri ordini agli amici libanesi, su cosa fare o non fare nei confronti di Bashar Assad che, a sua volta, manovra tante pedine nel Paese dei Cedri – ben oltre l’appoggio che gli garantisce Hezbollah – nonostante le difficoltà enormi che deve affrontare in casa a causa della guerra civile.

 

Le perenni rivalità, l’abituale scambio di accuse che segna da 10-12 anni la scena politica libanese, hanno messo in ombra passaggi del discorso di Nasrallah altrettanto interessanti di quello sulla presenza dei combattenti sciiti libanesi anche in Iraq (peraltro nota da tempo). Il segretario generale di Hezbollah ha parlato «di cancelli di una soluzione politica che dovrebbero essere aperti..l’opposizione non estremista…deve entrare in un accordo con il regime, perché il regime è pronto per una soluzione». Già in un precedente discorso, qualche mese fa, Nasrallah aveva avanzato, sebbene in modo vago, l’idea di un processo di cambiamento a Damasco nei prossimi anni. Nel quadro di una soluzione ampia, di lungo termine e condivisa, e senza l’uscita di scena immediata di Assad come chiede con insistenza l’opposizione siriana. D’altronde anche l’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan De Mistura, ora parla di Assad come parte della soluzione per la Siria, almeno in una fase transitoria.