È la prima direzione del Pd renziano allegra, per non dire ’serena’ che non sta bene. E ovviamente la più distesa analisi del voto da molti anni, «con il sorriso», esordisce il segretario. Lo stesso Matteo Renzi, con la responsabilità di quel 40,8% sulle spalle sembra diventato adulto. Dal giorno dopo le elezioni ha abbandonato il fare da bullo. Ma non la fretta, anzi, il consenso ottenuto corrisponde a un’aspettativa altrettanto grande e quindi niente festeggiamenti in piazza e bandiere al vento, ripete. E se la «volontaria dei tortellini di Modena» sarà incavolata, come gli ha fatto notare qualcuno, «se siamo arrivati al 40% è perché ci ha votato anche l’artigiano del Nord Est che magari non condivide le stesse idee della volontaria, ma ha un’idea condivisa: il Pd non come garante di conservazione, ma testimone della speranza».

L’aneddoto dei tortellini va al di là dello slogan della campagna elettorale sul derby «rabbia-speranza» contro Beppe Grillo, e parte da lontano. Riprendendo l’idea di partito «a vocazione maggioritaria» del Walter Veltroni del 2008 e ancora prima del congresso di Firenze del 2007, quello dello scioglimento dei Ds nel partitone «degli italiani». Il «partito della nazione», dice ora Renzi riprendendo la definizione usata da Alfredo Reichlin sull’Unità di mercoledì (ma Reichlin l’aveva usata anche altre volte spiegando anche di essere stato «sfottuto» per quell’espressione). Un partito che deve quindi decidere se il 40% delle europee sarà un colpo di fortuna o è un risultato dove si va a «mettere la residenza». Per imboccare questa seconda strada, forti di quell’investitura bisogna «provare a cambiare il paese e l’Europa», incalza Renzi, partendo dalla foto simbolo del 25 maggio, al Nazareno tutti insieme, minoranza compresa, non perché si salta sul carro – giura il segretario – ma perché «tutto il Pd avverte la responsabilità». Insomma, la prossima assemblea nazionale dovrebbe segnare una ripartenza, per chiudere con le «spartizioni correntizie» e gli strascichi del congresso: obiettivo gestione unitaria, quando il 14 giugno l’assemblea rinnoverà la segreteria e eleggerà il suo o la sua (si parla della lettiana Paola De Micheli) presidente, dopo l’abbandono di Gianni Cuperlo al termine di una direzione ormai lontana, tesissima. Ma appunto, «se ci vogliono stare ci stanno» e chi ci sta deve condividere gli obiettivi.

Il segretario-premier è molto, molto ambizioso e del resto non lo mai nascosto, anzi. Dice di muoversi verso la prospettiva del 2018 e quindi senza voler fare «campagna acquisti» è «fisiologico», sostiene, l’interesse che arriva da altre forze dopo il ciclone 25 maggio. Non cita Sel e 5 Stelle ma è anche lì che il Pd guarda per l’eventuale nascita di un gruppo di rinforzo che preoccupa Ncd; allude invece a Scelta civica quando parla della «scomparsa di altri partiti», e forse è anche una stoccata indiretta a Monti che ieri indicava nel ’golden boy’ il suo erede.

Si riparte, dunque, da un’idea di catch all party, ma non si resetta del tutto. Perché il segretario ripropone anche l’idea di riaprire le scuole di formazione che era già di Veltroni e poi di Bersani, serve un partito «che studia di più», dice. La Frattocchie renziana studia i classici (si useranno gli «strumenti tradizionali») ma anche «le serie americane» perché è importante il «racconto». E viene aggiornata anche l’idea della tv pedagogica (Renzi cita pure il maestro Manzi) per una Rai che attraverso il contratto di servizio contribuisca alla «scommessa culturale per il paese». I tagli alla tv pubblica? Basta polemiche, nessuna volontà di «distruggerla» sottraendole 150 milioni. Il modello non è insomma Mediaset, e così l’amico di Maria (De Filippi) allontana da sé l’immagine di figlio della tv berlusconiana (il premier cita Mike, ma quello anni ’50 di Lascia o raddoppia?) pronto a nuove cortesie nei confronti dell’ex Cavaliere sul fronte delle tv. A proposito di «scommessa educativa» ripete poi che la priorità è la scuola. E il lavoro, «la madre di tutte le battaglie». Anche se non va oltre la soddisfazione per l’approvazione del dl Poletti e sul jobs act non risponde alla chiusura di Squinzi rispetto al contratto a tutele crescenti. Parla invece della necessità di un investimento nella politica industriale elencando le vicende Ilva (da affrontare immediatamente, assicura) Alitalia, Sulcis, Termine Imerese.

Il partito, il paese e l’Europa, dove i democratici dovranno andare a «combattere». Lì «siamo il primo partito», ricorda Renzi, quindi «se non ci mettiamo in gioco noi per salvare l’Europa non lo farà nessuno. Serve un messaggio forte di cambiamento – incalza – o l’Europa non si salva. Non ci interessa aprire adesso una discussione sulle regole, ma sulla politica economica. Le misure attuate dalla Ue in un momento di crisi che risale a teorie degli anni 80 non danno una risposta sufficiente». E «il Pse dovrà essere coerente con i suoi slogan». Le linee guida per il semestre europeo arriveranno il 2 luglio. Nell’attesa, avanti su riforme, riforme, riforme: giustizia, Pa, legge elettorale, bicameralismo… La (ex) minoranza applaude, ma ancora deve capire bene cosa sta accadendo.