Patto tra Pd, M5S e Leu in Senato per costruire una maggioranza nella maggioranza. In termini tecnici si chiamerà «intergruppo», l’obiettivo è promuovere «iniziative comuni sulle grandi sfide, dalla emergenza sanitaria, economica e sociale fino alla transizione ecologica ed alla innovazione digitale».

Il tutto, naturalmente, «a partire dall’esperienza positiva del Governo Conte 2». «Iniziativa giusta e opportuna», benedice l’ex premier tornato semplice cittadino ma ansioso di tornare alla ribalta, e definisce «urgente l’esigenza di costruire spazi e percorsi di riflessione che valorizzino il lavoro comune già svolto e contribuiscano ad indirizzare la svolta ecologica e digitale nel segno di una maggiore equità e inclusione sociale».

Conte invita i partiti che lo sostenevano a «nutrire la loro visione democratica e solidaristica con proposte concrete e con traiettorie riformatrici ben chiare, in modo da alimentare questo patrimonio comune e da affinare una condivisione di intenti e di obiettivi». In pratica, tenersi pronti come alleanza per quando si tornerà al voito.

CONTE NON LO DICE ma l’operazione intergruppo, molto sponsorizzata da De Petris, ha anche l’obiettivo di frenare il dissenso dei senatori del M5S. Nel concreto, si parla anche di un documento programmatico comune e un coordinamento prima di ogni riunione della conferenza dei capigruppo: tutti modi per far pesare la maggioranza relativa di 153 (senza i senatori a vita), raggiunta da Conte a gennaio dopo l’uscita di Renzi.

«È la strada giusta», dice Roberto Speranza. «Una cosa molto importante, offriremo al presidente Draghi un’area omogenea per aiutarlo a raggiungere i suoi obiettivi su un asse politico dell’europeismo che altrimenti sarebbe stato più debole», gli fa eco Nicola Zingaretti.

MA L’ABBRACCIO SEMPRE più stretto con il M5S non convince tutto il Pd. «Uno strumento utile per l’azione in Senato, ma eviterei di caricarlo di eccessivi significati politici, che solo i partiti, a seguito di un dibattito ampio e partecipato al loro interno, potranno dare», mette le mani avanti Alessandro Alfieri, coordinatore nazionale di Base Riformista, la corrente di Guerini. Matteo Orfini è ancora più contrario: «Pensiamo a rilanciare l’iniziativa del Pd e a farlo uscire da questa assurda subalternità. Intergruppi che guardano al passato hanno davvero poco senso».

TRA I DEM SANGUINA ancora la ferita dell’assenza di donne nel governo. Ieri la conferenza della donne Pd, con un ordine del giorno a prima firma Titti Di Salvo e sottoscritto da 29 esponenti, ha chiesto la convocazione urgente della Direzione nazionale sottolineando che «l’assenza di ministre nel governo Draghi ha sollevato una forte reazione negativa» tra iscritti e militanti. «Ha determinato una caduta di autorevolezza nei rapporti con le associazioni e l’intera società. Per la distanza tra le affermazioni e la pratica e perché ha proiettato l’immagine di un partito non in sintonia con la realtà del paese fatta di donne e uomini».

REPLICA ZINGARETTI: «La giusta rabbia a cui bisogna dare una risposta non la dobbiamo mettere con la polvere sotto il tappeto, ma utilizzarla per superare i limiti che ci sono». «Parlo soprattutto agli uomini del Pd: è accaduto, è grave e non deve più accadere», ha detto il segretario dem, aprendo all’ipotesi di un vicesegretario donna. E ribadendo che le donne avranno una «forte presenza» nella scelta dei sottosegretari.

Laura Boldrini propone «azioni dimostrative» in stile «OccupyPd», mentre Valeria Fedeli avverte: «Non accetto un criterio risarcitorio per i sottosegretari e che quindi vengano scelte solo donne. Se così fosse lo considererei un vulnus ai principi e ai valori del Pd». (