In una Berlinale in cui, dato il cambio di direzione, tutti gli occhi sono puntati sulle sezioni competitive, si rischia di trascurare il resto di un programma in cui quest’anno spicca il cinquantesimo anniversario della sezione Forum con la riproposizione del programma della prima edizione. Il 1971 è un anno di svolta per la kermesse berlinese, la sezione detta «Forum Internazionale del nuovo cinema» viene creata attribuendo un piccolo budget agli «Amici della Deutsche Kinemathek», istituzione all’origine della sala Arsenal, guidati da Ulrich Gregor e Manfred Salzgeber, perché mettano insieme un programma capace di aprire alle nuove tendenze. Infatti, sulla scia dei movimenti di liberazione della fine degli anni 60, la settima arte si fa specchio e strumento di una critica sociale sempre più pugnace e scomoda e la Berlinale non ne resta indenne.

Nel 1970, infatti, il film antimilitarista di Michael Verhoeven O.K. (che quest’anno sarà riproiettato) aveva sollevato un putiferio: se da una parte il presidente di giuria George Stevens ne aveva chiesto il ritiro dal concorso, altrove si erano levate molte voci in difesa della libertà di espressione: l’Orso quell’anno non fu assegnato e fu chiaro che i tempi rendevano necessaria una presa d’atto rispetto all’ineludibile intreccio tra cinema e attivismo politico. Forum nasce dunque per dare spazio non tanto a piccoli film sperimentali a basso budget – I cancelli del cielo di Cimino fu proiettato a Forum – quanto piuttosto a un cinema coraggioso e innovativo dal punto di vista linguistico e produttivo. Del primo Forum saranno riproposti quest’anno 28 titoli tra lunghi e corti. Sono anni, quelli, in cui il cinema è parte integrante del dibattito pubblico, viene studiato, discusso e le prime videocamere leggere stanno favorendo una diffusione più orizzontale dei mezzi di produzione. Nascono i cineclub underground e la programmazione diventa un’attività culturale e politica di rilievo per un’intera generazione.

Il programma che rivedremo a Berlino mostra quanto i film fossero parte integrante delle lotte contro l’oppressione e le dittature con titoli come Anaparastasi, primo film di Theo Angelopoulos, che arrivò in Germania con una valigia diplomatica da Atene per sfuggire al controllo del regime dei colonnelli, o il fondamentale Felicità (1935) di Medvedkin oppure ancora Les trois-quarts de la vie del gruppo Medvedkine Sochaux. Titoli come Mes voisins e Soleil Ô del grande regista mauritano Med Hondo o Monangambeee di Sarah Maldoror ambientato in Angola sotto Salazar, testimoniano il potere del cinema nel farsi agente delle lotte di liberazione anticoloniale e antirazzista. Così è anche nel caso di Angela – Portrait of a Revolutionary di Yolande du Luart, che segue Angela Davis nella vita pubblica e in momenti privati, chiarendo l’inscindibile intreccio che allora stava rivoluzionando l’idea di «politica»: rovesciare i rapporti di potere per incidere nel cuore stesso della vita quotidiana.

La sessualità è uno degli ambiti privilegiati dalla rivoluzione contro-culturale: W.R. – Misterije Organizma di Dušan Makavejev omaggia il sessuologo Wilhelm Reich che andava per la maggiore negli anni 70 con la sua teoria dell’orgone e della necessità di liberare l’energia sessuale dalle costrizioni repressive della società borghese e capitalista. Il Foucault de La volontà di sapere non tardò a complicare le cose puntando il dito sul fatto che al potere faceva molto più comodo capitalizzare la sessualità piuttosto che reprimerla e in effetti lo stesso film di Makavejev permette già di interrogarsi sulle contraddizioni della libera(lizza)zione della sessualità orientando il suo obiettivo sudicio e scandaloso sul mondo della pornografia. Femministe e omosessuali avevano ben presenti queste contraddizioni, come mostra quella pietra miliare del cinema gay che è Non è l’omosessuale a essere perverso, ma la situazione in cui vive di Rosa von Praunheim. Oltre ad esso si potranno (ri)vedere diversi esempi di cinema femminista a cavallo tra finzione e documentario come Eine Prämie für Irene di Helke Sander e il film realizzato da sole donne Woman’s Film del San Francisco Newsreel, entrambi espressione della necessità di dare visibilità alla vita quotidiana dei soggetti allora più emarginati e invisibili: le donne povere e lavoratrici.

La Berlinale prosegue dunque un discorso critico sul cinema femminista e sugli immaginari alternativi alla norma di genere già intrapreso l’anno scorso con la retrospettiva Autodeterminate che propose alcune opere anni 70-80 di cineaste tedesche tra cui Dorian Gray im Spiegel der Boulevardpresse (1984) di Ulrike Ottinger. Alla regista nativa di Costanza, quest’anno, sarà attribuito il premio alla carriera Berlinale Camera accompagnato dalla proiezione del suo ultimo Paris Calligrammes (2019). Nel film si rievocano gli anni tra il 1962 e il 68 che Ottinger trascorse a Parigi frequentando l’atelier di Johnny Friedlaender, le avanguardie artistiche che ruotavano attorno alla libreria di Fritz Picard nonché i corsi di Bourdieu e Althusser. Sono anni straordinari di libertà e creatività, in cui Ottinger pratica soprattutto le arti grafiche, ma il suo occhio attento coglie nei luoghi e tra le persone le tracce di una violenza razzista destinata a durare ben oltre la decolonizzazione.

Per la prima volta, in Paris Calligrammes, la regista racconta una tranche della propria vita trasformandola però nell’occasione di ampliare lo sguardo su un’epoca e sullo sviluppo della sua sensibilità sempre tesa verso la ricerca dell’altro e dell’altrove come dimostrano i suoi molti film girati in estremo oriente (Mongolia, Cina, Corea). Ottinger inizia a fare cinema una volta tornata in Germania sviluppando allora quel suo immaginario caleidoscopico sospeso tra narrazioni epiche e mitologia, avventure picaresche e romanzo russo, dandysmo e camp, medioevo e punk per cui è nota sin da Madame X (1977), storia di una banda di pirate capeggiata dall’allora compagna della regista Tabea Blumenschein.

A questo esordio seguirà la trilogia berlinese (Bildnis einer Trinkerin; Freak Orlando e Dorian Gray) in cui la messa in scena sempre più finemente stilizzata permette di incorniciare porzioni di realtà e di paesaggio in cui oggi è straordinario riconoscere le architetture industriali di una Berlino che non esiste più. La metamorfosi degli spazi e dei corpi caratterizza l’opera di questa nomade queer che nei suoi film irride alle convenzioni e alla rispettabilità coinvolgendo in cerimoniali carnevaleschi, parate rituali e happening orgiastici complici d’eccezione come Delphine Seyrig, Veruschka, Magdalena Montezuma, Irm Hermann, Elfriede Jelinek oltre a compagini di meravigliosi freak di ogni tipo: nani e motociclisti, amazzoni mongole e soubrettes. Più vicina a Federico Fellini che a Bruno Dumont, la sua Wunderkammer cinematografica non è mai priva di tenerezza verso mostruosità e debolezze umane. L’unica debolezza che non si concede è quella di un linguaggio fintamente realista, convinta com’è che «non c’è niente di meno realista di una drammaturgia lineare. Il meandro si avvicina molto di più alla nostra vita».