La replica agli attacchi di Berlusconi alla magistratura, le parole severe contro il protagonismo delle toghe, ma soprattutto, nell’intervento di Giorgio Napolitano ieri all’Università Luiss di Roma, c’è la memoria del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. La cui morte improvvisa nel luglio dell’anno scorso, nel pieno della polemica sugli interventi del Quirinale attorno all’inchiesta di Palermo sulla trattativa stato-mafia, pesa ancora sul presidente. Tanto che in un passaggio del suo discorso, il capo dello Stato abbandona di slancio la prudenza e, riferendosi all’inchiesta dei magistrati antimafia siciliani, parla di «impronta mistificatoria» del «perverso gioco politico-giuridico e mediatico».

Lo fa, il presidente, citando un severo critico, sul punto, dei magistrati palermitani, il professor Fiandaca, relatore anche lui alla Luiss. E però il giudizio è tutto suo, ed è assai pesante. Si riferisce infatti il presidente a un semplice passaggio del processo per la trattativa stato mafia in corso in corte d’assise a Palermo. Ricordiamo i fatti.

Loris D’Ambrosio, magistrato dalla lunga carriera, già stretto collaboratore di Falcone, si trova al Quirinale come consigliere di Napolitano quando l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino fa continue pressioni perché il Colle intervenga in suo aiuto. Mancino è indagato a Palermo per falsa testimonianza, alcuni pentiti di mafia lo indicano come il referente della trattativa. Le telefonate di Mancino sono intercettate dalla magistratura siciliana, anche quella con D’Ambrosio; l’ex ministro chiede che l’indagine venga sottratta a Palermo in forza dei poteri di coordinamento che competono alla procura nazionale antimafia. Il Quirinale, su iniziativa di D’Ambrosio ma a firma del segretario generale Marra, scrive al procuratore generale della Cassazione per segnalare le lamentele di Mancino e chiedere una verifica sul coordinamento.

Il procuratore della Cassazione si rivolge alla procura nazionale, dopo un po’ l’allora superprocuratore Grasso risponde che non c’è bisogno di alcun coordinamento tra Palermo e le altre procure antimafia di Firenze e Caltanissetta perché tutto si sta svolgendo regolarmente. Questo carteggio è stato depositato adesso agli atti del processo di Palermo, ne ha dato notizia ieri Repubblica, ed è questa, secondo Napolitano, «l’impronta mistificatoria che si è fatta risentire proprio oggi forse in non casuale coincidenza con questo incontro» dedicato al ricordo di D’Ambrosio.

Molti dei protagonisti di quelle vicende sono in sala ad ascoltare il presidente. C’è il pg della Cassazione Ciani che scrisse a Piero Grasso. C’è l’ex primo presidente della Cassazione Lupo, che adesso occupa la scrivania di D’Ambrosio al Quirinale come consigliere giuridico di Napolitano. Da lui una mezza rivelazione, quando racconta di una telefonata di D’Ambrosio successiva alla lettera del Quirinale alla Cassazione per chiederne un giudizio «ma di un amico prima che del primo presidente della Cassazione». C’è la ministra Anna Maria Cancellieri, l’ex ministra Paola Severino che però non dice una parola sulla sua legge che adesso tormenta Berlusconi. C’è il nuovo giudice costituzionale scelto da Napolitano, Giuliano Amato, e c’è il nuovissimo presidente della Consulta Gaetano Silvestri che proprio Amato ha contribuito a eleggere. Silvestri da relatore è l’autore della sentenza della Corte Costituzionale con la quale all’inizio di quest’anno si dava ragione al presidente della Repubblica, ordinando la distruzione delle intercettazioni che lo riguardavano in possesso della procura di Palermo.

C’è insomma, sullo sfondo dell’intervento di Napolitano, questa realtà di relazioni consolidate tra rappresentanti delle istituzioni e ci sono anche queste ferite aperte tra le più alte cariche e la magistratura e la stampa che ne ha appoggiato il lavoro, anche quando si è rivolto contro il capo dello stato. E non è finita: a Palermo pende una richiesta di far testimoniare a processo il presidente della Repubblica. Napolitano però deve occuparsi di Berlusconi, cui aveva raccomandato moderazione, ricevendone in cambio videomessaggi ad alzo zero contro la magistratura. Le parole che il presidente usa per cercare di contenere il Cavaliere non sono nuove, sono quasi tutte esplicite auto-citazioni. Quasi a dire che non c’è più niente da dire, che ogni sforzo è vano. Anche perché «il mandato presidenziale è un esercizio solitario» per quanti ambasciatori del centrodestra si stiano rivolgendo quotidianamente al Quirinale.

«Il titolo di ’impiegati pubblici’ per i magistrati – dice Napolitano – non andrebbe mai usato in senso spregiativo» come invece Berlusconi fa continuamente, l’ultima volta nel videomessaggio. «La rigorosa osservanza delle leggi è un imperativo assoluto per la salute della Repubblica», «il conflitto tra politica e giustizia è fuorviante e va superato». Ma a queste parole Napolitano ne aggiunge di nuove, nella forma anche se non nella sostanza, dedicate alla magistratura.

L’essere sotto attacco, spiega il presidente che è anche la guida dell’organo di autogoverno delle toghe, non autorizza a dismettere «modelli di comportamento ispirati a equilibrio, sobrietà, riserbo, assoluta imparzialità e senso della misura e del limite, che sono il miglior presidio dell’autorità e dell’indipendenza del magistrato». Modelli non sempre rispettati, né è convinto il capo dello stato, che dunque accoglie subito e «con soddisfazione» quella «forte, coraggiosa riflessione autocritica che si è sollecitata e avviata giorni fa, in un dibattito a Milano». Si riferisce alle parole di Ilda Boccassini, bestia nera se non rossa per il campo berlusconiano, ma anche per una corrente dell’antimafia, che la settimana scorsa ha criticato la ricerca del consenso sociale da parte delle toghe e «le indagini servite ad altro», ad esempio a carriere politiche. Boccassini, e con lei c’erano il procuratore di Roma Pignatone e l’ex Gherardo Colombo: per il capo dello stato tutti «magistrati di grande esperienza, e di indiscutibile, fiera indipendenza e combattività». Il presidente li cita come esempio positivo, perché dai magistrati vorrebbe «un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo».

Ed è da tempo che questi propositi trovano spazio anche nelle correnti della magistratura, basta leggere i documenti dell’ultimo congresso di Md, la più odiata dal Cavaliere. Ma sono propositi di riforma che partono da una premessa che riguarda, questa sì, Napolitano molto da vicino: prima, dicono le toghe, bisognerà uscire da «l’emergenza berlusconiana».