«L’Intrusa non è un film sulla camorra; è un film su chi ci convive», spiega Leonardo di Costanzo nella presentazione del suo nuovo film, che sarà in cartellone alla Quinzaine des Realisateurs. L’intrusa è il secondo lavoro di finzione del regista napoletano dopo L’intervallo, del 2012, anch’esso girato nella periferia di Napoli – in un ex ospedale psichiatrico abbandonato da anni .

E nella periferia della città partenopea era ambientato anche il documentario d’esordio del regista, A scuola, dove seguiva il lavoro degli insegnanti della scuola media Cortese, nel rione di Pizzigno. Persone «che giorno per giorno stanno sulla linea del fronte», spiega Di Costanzo che definisce nello stesso modo i volontari protagonisti dell’Intrusa. Loro lavorano nel centro «la Masseria» a Ponticelli, dove vengono offerte attività ludiche e creative ai bambini del quartiere per sottrarli al degrado e alle dinamiche camorriste.  

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Il film, come spiega di Costanzo, non è «sulla camorra», ma «chi giorno per giorno cerca di sottrarle terreno, persone, consenso sociale, senza essere né giudice né poliziotto. Ma è anche una storia su quel difficile equilibrio da trovare tra paura e accoglienza, tra tolleranza e fermezza». Al centro arriva infatti un giorno, con i suoi due figli, l’intrusa del titolo: Maria, moglie di un uomo arrestato per l’omicidio di un innocente. «L’altro, l’estraneo al gruppo percepito come un pericolo è, mi sembra, un tema dei tempi che viviamo», conclude Di Costanzo.Alla sceneggiatura dell’Intrusa il regista ha lavorato insieme a Maurizio Braucci – già al suo fianco per L’intervallo – e con Bruno Oliviero, co-regista del documentario del 2006 Odessa.

Come è nato il progetto del suo secondo film, con il quale è tornato a girare nella periferia di Napoli?
Più volte ho pensato di fare un documentario sul mondo del volontariato, parola con cui faccio riferimento a quelle persone che stanno tutti giorni sulla linea del fronte e sono in qualche modo i «santi moderni». Girare un documentario però sarebbe stato difficile, perché di solito questi operatori non vogliono essere filmati, sono pudichi. Anche per questo mi è sembrato che la finzione fosse la strada migliore da percorrere. Abbiamo incontrato molti di loro e ci hanno raccontato le loro storie, le loro difficoltà quotidiane. Ne abbiamo scelta una, sulla quale è basato il film.

Ha specificato che «L’intrusa» non è un lavoro sulla camorra ma su chi ci convive.
È un film sul confine, lì dove finisce la città e inizia la campagna, e dove le maglie del controllo centrale sono più larghe. In questi spazi, in questa terra di nessuno, si combatte la lotta delle associazioni come quella del film per sottrarre individui, energie, spazi e territorio alla malavita. Anche L’intervallo seguiva lo stesso principio: non mi interessa filmare la camorra, la mafia – raccontarle come fenomeno sociale – o la rappresentazione del male. Mi interessa raccontare come ci si vive a fianco, e quali problematiche pone.

Come ha lavorato con Maurizio Braucci e Bruno Oliviero?
Sono due persone con le quali condivido una visione del mondo, un’intesa umana, politica, culturale. Durante la scrittura della sceneggiatura abbiamo passato molto tempo a parlare e confrontarci. La fase di scrittura è poi continuata anche durante il casting, perché le persone che incontravamo ci parlavano delle loro storie: la maggior parte degli attori dell’Intrusa sono non professionisti, e molti di loro vengono dal mondo che raccontiamo nel film – da una parte e dall’altra della «barricata». La lavorazione è stata quindi un work in progress, come era già successo per L’intervallo. Avevamo una sceneggiatura di base solida, ma anche una grande disponibilità ad accogliere nel film quanto di nuovo poteva venire dagli attori. Nessuno però interpreta se stesso: tutti sono chiamati ricoprire un ruolo diverso da sè.