Tra le mostre di questo autunno reso inquieto dalla pandemia va segnalata certamente Napoli Liberty. «N’aria ‘e primmavera» alle Gallerie d’Italia di Napoli (fino al 24 gennaio). Il discorso espositivo dei curatori (Luisa Martorelli e Fernando Mazzocca) verte su un frammento specifico della cultura figurativa partenopea al passaggio tra l’Ottocento e quella porzione di Novecento che precede la tragedia della Prima guerra mondiale. Incoraggiata da un sentimento di fiducia che si propaga in Europa, anche la scena napoletana prova a guardare avanti. E trova col conforto delle grandi Esposizioni internazionali un modo per rendere più precise le sue aspirazioni di svolta e sintonizzarsi lungo la corrente della modernità. Questa tensione si rivolge in ogni direzione, combinando pittura e scultura con le arti applicate, in una sorta di ricerca totale di un’arte nuova in tutto.
L’orientamento modernista trova per questo nell’architettura la sua forma privilegiata. La traccia lasciata in questo senso sul paesaggio napoletano è significativa. Gli smantellamenti, le costruzioni e le risistemazioni derivate dal Piano di risanamento avviato nel 1885 danno l’avvio alla trasformazione di intere zone, favorendo l’ingresso sperimentale di nuovi moduli ritmici e spaziali e di apparati decorativi avvolgenti e sinuosi in città, specialmente sulla collina di Posillipo e nei quartieri di Chiaia e del Vomero. Basti ricordare Villa Pappone di Gregorio Botta, la Palazzina Velardina di Francesco De Simone e Palazzo Mannajuolo di Giulio Ulisse Arata per dar forma al variegato contributo napoletano all’estetica Liberty.
Questo slancio, visto nei suoi aspetti più monumentali, resta ovviamente fuori dalla mostra. Negli ambienti di Palazzo Zevallos Stigliano (anch’essi improntati alla medesima logica decorativa) trova spazio, invece, l’interessante recupero della cosiddetta Secessione dei ventitré, un sodalizio di artisti giovani che, a partire dalla I Esposizione nel 1909, si ribella alle convenzioni, nella direzione di un racconto ultra soggettivo della realtà, chiamato così dal critico Paolo Ricci (nella mostra Arti figurative a Napoli dall’età umbertina al tempo del Liberty del 1976), a ratificare una sorta di variante napoletana alle ben più note Secessioni di Monaco, Vienna e Berlino. Gli esempi a portata di sguardo sono diversi: il Trittico di Eduardo Pansini, somatizzazione in chiave mediterranea dell’universo straniante di Ferdinand Hodler; In giardino di Edgardo Curcio, ripensamento dell’espressione sintetista di Émile Bernard; il busto Ragazza con la nocca di Raffaele Uccella, interpretazione antipoetica della ritrattistica rinascimentale.
Un’antologia del suo periodo napoletano (1908-’11), a coronamento della sezione pittorica, documenta la posizione di scostante autonomia assunta da Felice Casorati rispetto al resto. L’artista non amò Napoli e soffrì a starci, eclissandosi nella solitudine dello studio. Il quadro Persone, il cui vero senso tematico resta oscuro, tradisce l’iconografia della colazione all’aperto in un’imprevedibile composizione che associa varie età e stati d’animo a misteriosi attributi e delinea la prospettiva inquieta di questa personale stagione artistica.
Napoli, erede dei problemi borbonici e vittima della decadenza postunitaria, visse di profonde contraddizioni la sua Belle Époque. La corsa ai ripari del Piano di risanamento diede sì l’avvio a una grande stagione, ma nei fatti si rivelò anche un’operazione di mascheramento ed esclusione sociale: le cause del degrado restarono tali e quali, soltanto ora respinte «dietro il paravento» (Matilde Serao cit.) di un rinnovato decoro. Proprio come nel quadro Sogno a Venezia di Giovan Battista De Curtis – dove una donna è assorta su un letto di fiori verso un immaginario zuccheroso – una parte di Napoli volse lo sguardo altrove, come una mongolfiera senza alcun legame col terreno circostante.
Lo svolgimento espositivo rivendica per le arti applicate un piano almeno paritario a quello di pittura e scultura, celebrando le tante imprese nate alla fine del XIX secolo nel campo della lavorazione dei metalli preziosi (Gaetano Jacoangeli e Vincenzo Miranda), del corallo (Scuola di Torre del Greco), del legno (Scuola di Sorrento e Fabbrica di mobili artistici Gennaro Cangiullo) e della ceramica (Scuola Officina del Museo Artistico Industriale e Figulina Artistica Meridionale). Dipinti come Seduzioni di Vincenzo Migliaro – scena di grande attualità concettuale intorno all’attrazione di una donna davanti alla vetrina di un gioielliere –, cartelloni pubblicitari come quello di Leopoldo Metlicovitz per i Magazzini Mele, o ancora la Fontana degli aironi di Filippo Palizzi spiegano bene la passione divorante e totalitaria per il lusso e il bel vivere mondano di una parte di Napoli.
Rispetto a tale esigua cerchia, la gran massa popolare continuò ad affollare i paraggi nel degrado più squalificato, completamente ignorata. La povertà di una parte poteva turbare la leggerezza dell’altra. Tanto meglio allora prenderla a ridere (si fa per dire!), come fa Eduardo Scarpetta nella commedia Miseria e nobiltà. Al secondo atto, Felice Sciosciammocca arriva a fantasticare un mondo di soli ricchi, salvo poi rendersi conto che questo sarebbe un mondo in cui lui stesso non potrebbe vivere: la tragedia esistenziale si traveste da farsa comica. Due Napoli, quindi, lontane anni luce l’una dall’altra: una prospera, l’altra stracciona; una brillante, l’altra disgraziata.
Caso vuole che proprio in questo periodo il Museo di Capodimonte ospiti la mostra Gemito. Dalla scultura al disegno. Con la sua naturale predilezione per un’umanità sospesa tra l’abbandono, la penuria e una salute tragicamente malferma, l’opera di Gemito inquadra nitidamente il dramma che è nella realtà meridionale e offre un curioso contrappunto visivo ai testi scelti nell’altra esposizione. Come non pensare al foglio che ritrae l’amata Anna Cutolo morente, avvilita d’un autunno esistenziale e spoglia finanche nella resa grafica, quando si è di fronte al Ritratto di Maria Sommaruga del salernitano Ulisse Caputo, con la catena d’oro sul petto e una pittura frantumata a caleidoscopio a suggerirne la scintillante spensieratezza? Lo scarto tra le due narrazioni è ingente. Nato per rendere la bellezza alla portata di tutti, il Liberty finì con l’essere dovunque, e anche a Napoli, un orientamento marcatamente élitario.