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Naji al-Jerf, ucciso in silenzio

Naji al-Jerf, ucciso in silenzioIl regista siriano Naji al-Jerf, ucciso in Turchia il 27 dicembre – Reuters

Siria Il regista siriano freddato in Turchia lavorava ad un nuovo documentario sulla Siria ai tempi dell’Isis. Prima di lui altri attivisti di “Raqqa viene massacrata in silenzio” sono morti in territorio turco, insicuro per i giornalisti. Protetta dalla cortina di impunità di Bruxelles, Ankara reprime le voci critiche

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 30 dicembre 2015

Ventiquattro minuti, volti e voci, rovine, bandiere nere, cadaveri: è l’Aleppo al tempo dello Stato Islamico. A catturarne la sofferenze e il silenzio in un documentario che oggi fa il giro del mondo è stato Naji al-Jerf, giornalista e regista siriano di 38 anni. Naji è stato ucciso in Turchia, nella città di Gaziantep, domenica 27 dicembre. Camminava per strada quando è stato freddato da un colpo alla testa. Doveva partire il giorno dopo per la Francia, in mano tutti i documenti per sé e la sua famiglia. L’asilo politico era l’obiettivo perché lui e i suoi compagni del gruppo “Raqqa is Being Slaughtered Silently” (Raqqa viene massacrata in silenzio) sono finiti da tempo nel mirino della repressione islamista.

Il gruppo di attivisti per lo più basati nella cosiddetta capitale del “califfato” è tra i pochi in grado di dare ancora voce ai civili assediati dall’Isis e, nel post-Parigi, bombardati dagli aerei occidentali della coalizione anti-terrore, che quando i riflettori si sono abbassati ha dimenticato la comunità. Naji raccontava la Siria con la telecamera: il documentario “L’Isis ad Aleppo”, da lui curato, era uscito solo una settimana fa su YouTube e subito ripreso dall’emittente araba al-Arabiya.

Seppure ancora nessun gruppo abbia rivendicato l’azione, è stato ucciso per questo, per i video e per la sua rivista mensile al-Hentah: colpiva l’Isis dove l’Isis è più forte, nella propaganda mediatica e nei video fatti girare per la rete. Stava preparando un secondo documentario, dicono gli amici, e aveva già ricevuto intimidazioni: telefonate di minaccia alla famiglia e una bomba trovata dentro la sua auto.

Lunedì a Gaziantep in migliaia hanno partecipato ai suoi funerali, accanto alla moglie Boshra e alle figlie Emsa e Yam. Sopra la bara, la bandiera dell’Esercito Libero Siriano, braccio armato della Coalizione Nazionale, ombrello delle opposizioni moderate al presidente Assad. L’hanno messa perché nei suoi documentari Naji attaccava anche il governo di Damasco, contro il quale partirono nel 2011 le proteste popolari: la gente chiedeva maggiori libertà politiche, si è ritrovata con una guerra civile manovrata dall’esterno e lo Stato Islamico in casa. Con Damasco Naji aveva avuto a che fare direttamente: nel 2012 fu arrestato e torturato, dicono alcuni amici, prima di scappare in Giordania.

L’omicidio, che molti attribuiscono a Daesh, segue a quello del 16 dicembre di Ahmad al-Mousa, membro di “Raqqa is Being Slaughtered Silently”, ucciso a Idlib, città siriana occupata dai qaedisti del Fronte al-Nusra. Al 29 ottobre risalgono invece gli assassinii, rivendicati dallo Stato Islamico, di altri due membri del gruppo, il suo fondatore Ibrahim Abdel al Qader e Fares Hammadi: il corpo di Ibrahim è stato trovato quasi del tutto decapitato, quello di Fares in una pozza di sangue. Sono stati ammazzati a Saliurfa, sud est della Turchia.

Dieci giorni prima era toccato a Jacqueline Sutton, giornalista britannica della Bbc, trovata morta in circostanze misteriose all’aeroporto Ataturk di Istanbul. Sullo sfondo resta lo stesso palcoscenico, la Turchia. Morti di voci critiche, giornalisti, attivisti che perdono la vita in un paese che aspira ad entrare nell’Unione Europea, nonostante le palesi violazioni di diritti umani e libertà di espressione. Perché è vero che ad uccidere Ibrahim e Fares è stato l’Isis, ma ciò dimostra la facilità di movimento e penetrazione in territorio turco, permeabile via di passaggio da e verso la Siria di islamisti sotto gli occhi di Ankara, delle sue forze armate e dei servizi segreti.

A Diyarbakir, nel sud est turco, un anno fa, gli attivisti kurdi ci indicavano con il dito i locali noti per essere luoghi di reclutamento di nuovi adepti del “califfo”: «Se lo sappiamo noi – raccontavano al manifesto – lo sa anche la polizia turca ma li lascia fare». Oggi a gridarlo a gran voce sono le organizzazioni per i diritti umani: «Chiediamo alle autorità turche di portare gli assassini di Naji al-Jerf di fronte alla giustizia e di assumere le misure necessarie a proteggere tutti i giornalisti siriani in territorio turco», ha detto domenica Sherif Mansour, coordinatore per Medio Oriente e Nord Africa dell’ong indipendente Committee to Protect Journalists, che a novembre aveva premiato proprio il gruppo di Raqqa. I trenta membri che restano, per lo più residenti in Siria, tremano: usano pseudonimi, cercano protezione, ma non nascondo la paura di poter essere i prossimi.

Di certo protezione non la troveranno nel paese più vicino, porta per l’Europa. La Turchia del “sultano” Erdogan non è un luogo sicuro per i giornalisti, né stranieri né locali. Le violenze commesse contro la stampa indipendente si moltiplicano, insieme alla repressione di attivisti turchi e kurdi, dai protagonisti di Gezi Park ai sostenitori del partito di sinistra Hdp.

Attacchi e raid contro le sedi di giornali ed emittenti tv, censure, arresti. I casi sono numerosi, ma spesso nascosti dalla fitta nebbia della propaganda interna. È accaduto a Can Dündar e Erdem Gül, giornalisti di Cumhuriyet, in prigione dal 26 novembre con l’accusa di sostegno al terrorismo, spionaggio e divulgazione di segreti di Stato. La ragione è altra: erano scomodi. Il loro giornale, di cui Dündar è direttore e Gül caporedattore, aveva pubblicato reportage che mostravano l’intelligence turca consegnare camion di armi agli islamisti di al-Baghdadi. Ora rischiano la pena di morte.

Il giorno di Natale Reporters Without Borders ha fatto appello alla Corte Costituzionale turca perché liberi i due giornalisti in attesa della sentenza sulla costituzionalità della loro detenzione, che secondo gli avvocati viola i la libertà di stampa e di espressione. Una voce che segue all’appello internazionale firmato da intellettuali di tutto il mondo e organizzazioni per i diritti umani, ma anche a quella dello stesso Dündar che in un editoriale pubblicato nei giorni scorsi dal The Washington Post accusa Bruxelles: l’Unione Europa sta ignorando le proteste dei giornalisti target delle politiche repressive di Ankara. Scrive: «Quanto vale la libertà? Meno di tre miliardi di euro», chiaro riferimento all’accordo tra Turchia e Ue per bloccare il flusso di rifugiati verso la fortezza Europa.

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