Con il 60% della popolazione che vive su un misero 6% della superficie urbana, Nairobi, la capitale del Kenia-paese di vacanze da cartolina, dove crescita e corruzione vanno a braccetto e la diseguaglianza sociale si manifesta feroce, ospita alcuni degli slums più affollati del mondo. Deep Sea è uno di questi, lo slum che il pool di autori di Lamiere-storie da uno slum di Nairobi, ha visitato per realizzare un reportage a fumetti. Gli scrittori e sceneggiatori Giorgio Fontana e Danilo Deninotti e il disegnatore Lucio Ruvidotti hanno accompagnato un équipe di medici e infermieri, volontari di Rainbow for Africa, una onlus che si occupa di supporto e formazione nel settore sanitario, per raccogliere testimonianze della situazione preoccupante e troppo spesso irreversibile della vita negli slums. Il libro si inserisce nel filone del reportage a fumetti che Feltrinelli Comics ha inaugurato lo scorso anno con Salvezza (Rizzo-Bonaccorso), il reportage dalla nave Aquarius. Con colori vividi che sanno essere sgargianti come le vesti africane ma anche cupi e fangosi come i liquami che avvolgono le strade degli slums, la narrazione è divisa in quadri brevi che documentano il lavoro del gruppo di medici e degli stessi reporter e risulta dinamica e godibile, benché il libro tocchi questioni morali profonde. Ne abbiamo parlato con gli sceneggiatori.

Giorgio, la giustizia è un tema che hai già trattato nei tuoi romanzi, attraverso le figure dei magistrati Doni e Colnaghi. Non credi che in qualche modo il modello Nairobi sia la summa dell’ingiustizia sociale?

Sì, innanzitutto perché Deep Sea non è il frutto di un’iniziativa autonoma — alcune persone povere trovano uno spazio libero, lo occupano e lo abitano — bensì dello sfruttamento. Gran parte baracche dello slum sono affittate e non di proprietà di chi le abita; le condizioni igieniche terribili; la possibilità di riscatto sociale quasi inesistente; per non parlare delle difficoltà psicologiche. Come ha osservato il nostro disegnatore Lucio Ruvidotti, è un modello in scala ridotta del capitalismo, dove tutte le sue storture sono assai più evidenti. Ma allo stesso modo, sono più evidenti le forme di auto-organizzazione e resistenza.

E lo stesso concetto di giustizia è abbastanza labile o quantomeno oscuro, se si pensa alla questione dell’acqua e delle taniche gialle, o alla polizia informale, all’organizzazione generale degli slums, alla totale cecità del governo… Immagino che da occidentali si debba rivedere il concetto di bene e male continuamente. È stato così per voi?

In realtà ciò che sfuma è piuttosto la differenza tra giusto e legale, in una condizione di informalità ed emarginazione come quella dello slum. È giusto o sbagliato rubare l’acqua, se l’acqua non è fornita dallo Stato? Ed è giusto o sbagliato rivenderla? È accettabile che ci sia una polizia informale che si fa giustizia da sé, in un luogo dove la polizia si presenta solo per scopi politici? E così via.

Giorgio, il reportage è da sempre nelle tue corde; ricordiamo che 10 anni fa usciva Babele 56, un racconto di 8 voci migranti sul processo di meticciamento di Milano. Anche Lamiere è un libro di testimonianze. Avete dovuto abbattere la diffidenza iniziale per raccogliere testimonianze a Deep Sea e negli altri slums, per Lamiere?

Abbiamo avuto un vantaggio: frate Ettore Marangi — che opera a Deep Sea da tanti anni — ci ha presentati come suoi amici e affidati alle cure di un gruppo di donne molto carismatiche che ci facevano da “scorta”. Inoltre eravamo a stretto contatto con i volontari di Rainbow for Africa, i quali avevano già svolto attività nello slum durante le missioni precedenti. Questo ci ha permesso di muoverci con una certa libertà. Tuttavia un po’ di diffidenza all’inizio c’era. Da un lato è normale: eravamo degli estranei. Dall’altro, nel fumetto riflettiamo su come gli slum siano luoghi a volte pericolosi, ma per i loro abitanti il pericolo venga spesso dai bianchi e dalla loro rapacità. In ogni caso, dopo meno di una giornata eravamo già facce note e la gente ci salutava con un sorriso.

Il frate Carmelo fa una riflessione importante sulla condivisione della povertà, confessando di essersi ricreduto rispetto al suo slancio originario a vivere in Kenia come gli abitanti degli slums, spiegando che quella è una “miseria che lede la dignità umana”. Che ne pensate? Quale credete sia l’atteggiamento più adeguato per prestare aiuto agli abitanti degli slums, anche all’interno di azioni di cooperazione?

Carmelo mette a nudo il pauperismo sciocco di una certa sinistra e di un certo cattolicesimo: quella di Deep Sea è una miseria da cui non c’è nulla da imparare, perché impedisce alle persone di fiorire. Come abbiamo già osservato, gli abitanti dello slum si auto-organizzano e cooperano a vicenda; ma in condizioni di simile privazione materiale è ovvio che ci siano anche episodi di sopraffazione ed egoismo. L’atteggiamento più sensato è lavorare per l’emancipazione insieme a loro, senza imporre “soluzioni” dall’alto che spesso non tengono conto dei bisogni emotivi e di libertà dei singoli. Carmelo citava come esempio la riflessione di Paulo Freire ne La pedagogia degli oppressi, un libro che compare di sfuggita anche nel fumetto: ci sembra un ottimo punto di partenza.

Entrambi avete sceneggiato molte storie per Topolino, ma questo è il vostro primo lavoro lungo di giornalismo grafico. Ci sono ovviamente molte differenze, ma qual è l’aspetto che vi sembra più interessante del reportage?

Le differenze sono notevoli; ma come ama ricordare Tito Faraci (nostro ex editor proprio a Topolino e ora direttore editoriale di Feltrinelli Comics): “Una volta che impari a sceneggiare per Topolino, sei in grado di sceneggiare qualunque cosa.” Ed è vero: le basi tecniche non cambiano. I tempi di produzione di un reportage a fumetti, però, non sono quelli di un articolo giornalistico o un servizio tv o fotogiornalistico. Non vai sul campo e appena rientrato produci il tuo pezzo. La lavorazione ti obbliga a riflettere e reinterpretare, e il risultato deve tendere, secondo noi, a un reportage letterario il cui scopo sia porre dubbi, scatenare domande, chiamare all’azione. A ciò si lega anche l’aspetto dello sguardo non neutro di chi scrive e disegna. Si deve accettare la propria soggettività: mostrarla e al contempo integrarla in un discorso che sia anche informativo.

Rainbow for Africa si occupa anche di formazione, perché più che assistenzialismo vuole dare strumenti e appoggio agli abitanti di queste aree ad elevatissima densità demografica, dove è assente l’accesso ai bisogni inalienabili, insegnando mestieri, con il fine di emanciparsi economicamente. Per cui da occidentali in uno slums, ogni giudizio e ogni paternalismo è da abbandonare, a favore di quale atteggiamento? Ci sono stati momenti in cui avete dubitato del vostro complesso ruolo di testimoni, cooperanti, e narratori occidentali?

Paternalismo e pietismo non servono a nulla. L’atteggiamento corretto è quello dei frati e dei medici in prima linea: empatia, positività e coraggio di impegnarsi dal basso in progetti non assistenziali; senza aver paura di sbagliare e ricominciare. Non mettere toppe ma provare a ragionare sul medio e lungo termine.

I momenti di dubbio sul nostro ruolo e mestiere si sono subito insinuati e non ci hanno ancora del tutto abbandonato. Crediamo nel potere delle storie; ma ne abbiamo toccato con mano il limite. Raccontare deprivazione, povertà, emarginazione sociale non serve a nulla se alla testimonianza non segue una riflessione. Se l’informazione non si trasforma in impegno per fare una qualche differenza, anche nella propria quotidianità.

Mi ha colpito molto che il “capo di zona”, la figura che fa da anello tra il kijiji e le istituzioni, fosse proprio una donna. In generale ci sono pochissime figure forti maschili nella struttura sociale operativa degli slums, ma questo non implica una rivalutazione dei ruoli femminili. Come spiegate questo paradosso?

È un tema molto complesso; ci limitiamo a quanto osservato nel nostro viaggio. Da un lato i maschi si mettono spesso in cattiva luce, e questo dà alle donne un grande spazio d’azione — sono state proprio delle donne a guidarci e aiutarci. D’altro canto tale carisma femminile non si traduce in una forma di emancipazione sociale completa; il patriarcato e il maschilismo sono ancora molto forti. Non abbiamo risposte compiute, ma ci preme osservare che questi problemi non mancano certo — pur con modalità diverse — anche da noi.

Il vostro libro chiude con la constatazione dei limiti della semplice testimonianza. Quali azioni vi piacerebbe intraprendere per dar seguito a questa bella esperienza?

Volontariato, sensibilizzazione, azione diretta per combattere la diseguaglianza sociale. E stimolare per quanto possibile una maggiore riflessione sull’empatia, un bene che sta scomparendo a grande velocità.