Visitando nel 1931 Shushi, cittadina del Karabakh segnata anni prima da un pogrom anti-armeno, Osip Mandelshtam, fra i massimi poeti russi del secolo scorso, ci ha lasciato testimonianza in alcune pagine strazianti di come la traccia di queste violenze, di poco precedenti l’annessione del territorio all’Urss, fosse ancora viva.

«LA MONTAGNA DELLE LINGUE» – così gli arabi chiamavano il Caucaso nel Medioevo – è da sempre una terra plurale da un punto di vista etnico, religioso e linguistico. Se è indubbio che, ancora in epoca sovietica, la bilancia demografica in Karabakh pendesse nettamente da parte armena, sarebbe riduttivo e forse inutile declinare la pluralità di innesti che compongono la sua storia e cultura affidandoci agli standard degli attuali e contrapposti nazionalismi.

Visitandolo, si possono scoprire ancora oggi tracce di una contaminazione profonda fra la cultura persiana e quella russa, insieme naturalmente a quella armena e turco-azera. Un territorio, questo, affidato da Stalin all’Azerbaijan, nell’intento di rafforzarlo in quanto possibile avamposto per l’esportazione della rivoluzione in Turchia. La questione del Nagorno-Karabakh, rimasta a lungo sepolta sotto «il nero velluto della notte sovietica», per citare un verso dello stesso Mandelshtam, riemerge in tutta la sua violenza nell’epoca di contraddizioni e aperture della Perestrojka.

A una petizione fatta giungere a Mosca nel 1987 firmata da decine di migliaia di armeni del Karabakh che chiedevano la secessione dall’Azerbaijan, ancora repubblica sovietica al pari dell’Armenia, seguono una serie di proteste in Armenia, in Karabakh e anche in Azerbaijan, che sfoceranno presto in una serie di massacri (fra cui il pogrom anti-armeno di Sumgait). A queste, seguiranno le espulsioni di massa delle diverse minoranze dai due paesi e, infine, la guerra.

UN CONFLITTO, QUESTO, che costerà la vita di oltre 30 mila persone, in un confronto armato effettuato con una povertà assoluta di mezzi, riducendo la regione intera in uno stato di povertà estrema. Fra gli episodi più cruenti, avvenuti dall’una e dall’altra parte, ricordiamo il massacro di Khojaly, che costò la vita di centinaia di azeri.

A vincere, senza però mai giungere un accordo di pace, saranno gli armeni che occuperanno l’intero territorio ed alcune piccole regioni adiacenti, auto-costituendosi in una repubblica, quella del Karabakh, non riconosciuta da alcuno stato al mondo, neppure dalla stessa Armenia.

Il cessate il fuoco (non si andrà mai oltre, purtroppo) del 1994 risulterà un accordo fragile, continuamente violato, che finirà per nutrire i contrapposti nazionalismi, fra una corsa al riarmo e proclami bellicosi cui, fin troppo spesso, sono seguiti scontri e violenze. Fra le decine di escalation di questo ultimo quarto di secolo, la più feroce si è avuta nell’aprile 2016. Centinaia i morti per un’avanzata territoriale, da parte azera, di assai modeste dimensioni.

FRA I TANTI EFFETTI di questo episodio, ribattezzato nella regione come la «guerra dei quattro giorni», vi è senza dubbio l’indebolimento della leadership armena dell’ex presidente Serj Sargsyan, che ha portato alla rivoluzione di velluto, nonviolenta e infine vittoriosa, del 2017. Questo mentre in Azerbaijan una sola famiglia, quella degli Aliyev, si è mantenuta al potere quasi ininterrottamente dal 1969 ad oggi, costituendosi in una dittatura fra le più stabili e durature del nostro tempo. Ma neppure la nuova leadership di Nikol Pashinyan, capo carismatico di quella rivoluzione, si è rivelata un fattore capace di incidere sulla stagnazione del processo di pace.

 

Il presidente azero Ilham Alyev (Ap)

 

IL NAGORNO-KARABAKH resta così sospeso fra le rivendicazioni contrapposte, anche in termini giuridici, di integrità territoriale (Azerbaijan) e del principio dell’autoderminazione dei popoli (Armenia). Una terra di nessuno, in termini politici, ma ricca di umanità e di storia, in un contesto segnato da ferite profonde (il genocidio armeno, in primis) ma anche dall’interferenza di Russia e Turchia – quest’ultima assai attiva negli ultimi scontri.

Restano, in tutto questo, centinaia di migliaia di profughi e sfollati azeri e, in misura minore, armeni, che non sono più potuti rientrare nelle loro case. E resta soprattutto un conflitto che, a quasi trent’anni dal suo inizio, è ancora lontano da una qualsiasi prospettiva di pace.