Trump, prima di affrontare gli ultimi tornanti delle presidenziali, voleva portare a casa un successo di politica estera di rilievo, ovvero imporre ad azeri e armeni nel Nagorno-Karabakh una mini-tregua che permettesse di far partire un nuovo giro di consultazioni e ponesse la Casa bianca al centro della trattativa.

A questo obiettivo il segretario di Stato Mike Pompeo aveva lavorato tutto il week-end strappando alla fine un sì dai suoi omologhi in conflitto per far cessare gli spari per ieri mattina alle 7. «Fare la pace nel Caucaso è cosa facile facile» aveva twittato felice il presidente Usa appena avuta la notizia.

Peccato che se le 2 tregue proclamate sotto gli auspici della Russia erano fallite dopo pochi minuti, la «pax americana» è naufragata ancora prima di iniziare: alle 6,52 il ministero della difesa azero accusava l’esercito nemico di aver sparato dei colpi di mortaio contro le proprie postazioni.

A Mosca malgrado fosse ancora presto devono aver brindato: il tentativo Usa di diventare l’ago della bilancia nella crisi era miseramente fallito.

Palla al centro e già da oggi Mosca riprenderà il palleggio tra Erevan e Baku. Anche all’Eliseo, Macron, non si è certo disperato per il mancato cessate il fuoco visto i pessimi rapporti con Erdogan delle ultime settimane. A Parigi si è convinti che senza Putin non si caverà un ragno dal buco. Le rivelazione che arrivano dal fronte, del resto, fanno pensare che il ministero della difesa russa, o perlomeno una sua frangia, non sia allineato con il neutralismo sbandierato dal presidente russo.

Sabato scorso si è appresa la notizia che un soldato russo di 19 anni, Alexander Nechaev, è rimasto ucciso in combattimento nel Nagorno-Karabakh nei pressi di Hadrut.

La notizia è di particolare interesse perché non si tratta in questo caso di un foreign figher, di un «wagneriano». Nechaev era invece uno dei tanti volontari- per i giornalisti russi presenti al fronte – che avrebbe ricevuto l’autorizzazione dei suoi superiori a combattere al fianco degli armeni e dei guerriglieri di Arzach (come si autodefinisce l’autoproclamata repubblica dell’enclave). Uno schema già visto all’opera durante la guerra del Donbass nel 2014 quando molti soldati russi erano andati a combattere nelle file delle milizie delle autoproclamate «repubbliche popolari».

Da oggi sui canali Telegram dei giornalisti russi presenti in zona stanno circolando delle foto di presidi dell’esercito russo al confine tra Armenia e Nagorno-Karabakh, pronti a entrare in azione.

Ciò dimostrerebbe quanto il cuore dei russi in realtà batta per gli armeni e come almeno alcuni settori dello Stato maggiore russo interpretino e concepiscano questo conflitto come un conflitto indiretto con la Turchia. Del resto anche in Siria si tifa per gli armeni in funzione anti-turca: la scorsa notte ad Aleppo si è tenuta una grande manifestazione di solidarietà con il popolo armeno in cui sventolavano insieme bandiere siriane e degli indipendentisti armeni e sono risuonati slogan contro Erdogan e il suo regime.

«A Damasco si teme che da questa guerra Ankara possa uscire rafforzata per poi riprendere con rinnovata energia la guerra in Siria» ha sottolineato oggi nel suo editoriale il giornale moscovita Vzglyad. E anche in Georgia, paese che si prepara ad aderire alla Nato, sempre ieri sera, si è tenuta una manifestazione popolare contro il tanto temuto «espansionismo ottomano».

Il governo turco starebbe facendo il massimo sforzo per vincere la guerra: nei giorni scorsi l’esercito turco, sempre secondo fonti russe, avrebbe trasferito 1200 dei suoi alpini dal Kurdistan turco agli altopiani del Nagorno-Karabach dove le truppe azere avrebbe incontrato delle difficoltà sulla direttrice di Jebrail-Hadrut.