All’età di 22 anni, madre di una bambina piccola, Nadezhda Tolokonnikova, detta Nadja ha passato quasi due anni ai lavori forzati nel gulag di Putin dopo essere stata condannata in seguito alla performance Preghiera Punk nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca. Uno degli happening di protesta delle Pussy Riot, le cui componenti hanno anteposto antagonisticamente i propri esili corpi al feroce regime putiniano. È un impegno cui la trentenne co-fondatrice della formazione femminista art-punk tiene fede tutt’ora. Le ragazze del collettivo sono state selvaggiamente picchiate da miliziani cosacchi a Sochi, pedinate, arrestate e trascinate a forza dal campo dello stadio di Mosca e imprigionate quando hanno invaso il campo durante la finale degli ultimi mondiali di calcio in Russia. Interpreti di un situazionismo ispirato al punk, all’azionismo, al situazionismo storico e alle avanguardie artistiche dal 900 al ’68, le Pussy Riot sono fautrici di una internazionale solidale dell’attivismo con corrispettivi in movimenti globali come Fridays for Future e Black Lives Matter, in prima linea nella resistenza all’involuzione neo totalitarista del nazional populismo. Oggi Nadja definisce il collettivo «un movimento con diverse iniziative creative.» Una di questa è la musica, cui Tolokonnikova si sta dedicando più seriamente. Le abbiamo parlato a Los Angeles dove si trova per le registrazioni di canzoni (in parte già postate online) che dovranno formare un primo album previsto per settembre

Ti consideri un’esule russa?

No perché? Non sono mai emigrata vivo ancora per la maggior parte in Russia, ultimamente ho passato parecchio tempo a Los Angeles, ma la mia patria è sempre la Russia. Stiamo lottando per una democrazia funzionale nel nostro paese. Da quando sono andata a vivere a Mosca, quando avevo sedici anni e sono entrata nel movimento anti Cremlino, un movimento per la democrazia in Russia.

Credi sia possibile?

Certo, perché no? Dipende da chi detiene il potere. Ora sono le persone sbagliate ad averlo e a prendere tutte le decisioni. Esistono invece persone ottime e di grande talento nel paese. Se avessero loro il potere, o meglio se il potere lo avessero i cittadini, avremmo una vera democrazia.

Forse l’ultima volta che vi si è andati vicini è stato nel 1917. Allora, prima della repressione i movimenti artistici ebbero un ruolo centrale.

Riguardo alla democrazia, si tratta di un ideale e abbiamo il compito di arrivarci il più vicino possibile. Non importa se non ci si è ancora mai riusciti del tutto. Per quanto attiene invece all’arte, adoro l’avanguardia russa e sono fiera di venire dal paese di Malevic. Quando ero adolescente, sognavo di riportare il paese a quell’epoca, quando esercitavamo un’influenza globale, non con i missili o con la polizia segreta, ma con l’arte e le idee. È quello che più mi fa sentire ancor oggi patriottica. Per questo quando abbiamo fondato un collettivo artistico ci siamo ispirati in gran parte alle idee dell’avanguardia. Avevamo sogni grandi quanto quelli dell’inizio del secolo scorso. Abbiamo fondato quel gruppo che si chiamava «Vojna» anche se a quel tempo le grandi idee artistiche non andavano molto di moda. La scena era dominata dal cinismo del postmodernismo. Noi non ci riconoscevamo in quel programma, semmai negli artisti che avevano dato la propria vita per i loro ideali. E, alla fine, siamo finite in galera. Quindi, sì, credo nella passione che cambia il mondo. E anche che l’arte possa favorire questo processo. Se l’avanguardia (del Novecento) è riuscita a trasformare la mente di una quattordicenne un secolo dopo, allora il suo «fare» era giustificato.

Per l’album usate lo slogan «Sesso è bello ma avete provato a fottere il sistema?». Anche col tuo primo collettivo di performance art, Vojna, avete inscenato una performance che usava il sesso come strumento «sovversivo». Perché?

Si è trattato soprattutto di una sola performance e non era certo conformista, era una specie di orgia pubblica (alla fine più simbolica perché no è stato facile fare davvero sesso – ma l’idea era quella). Mi considero parte della tradizione di artisti che utilizzano I proprio corpo come strumento, invece di pennelli e vernice. Nel momento artistico non penso «oh, mi vergogno a comparire nuda in pubblico». Non ci penso perché nel momento è lo strumento artistico. Uso il corpo come lo facevano anche gli azionisti viennesi, che sono stati una influenza forte sul mio lavoro. Nella vita sono tutt’altro che spudorata – vorrei esserlo ma non lo sono – ma essere parte della pratica artistica mi ha certamente aiutata a liberarmi come donna e de-sessualizzare e de-oggettificare il mio corpo. Lo ritengo uno strumento e non oggetto dello sguardo altrui.

Nelle ultime settimane hai postato video clip che utilizzano parodisticamente un personaggio pop, come la starlet che in «Police State» si trasforma da influencer in amazzone punk…

Mi interessano gli estremi. Mi piace impersonare diversi look e personaggi per provocare lo spettatore – sovvertire. Quando avevo 18 anni, ero studentessa alla statale di Mosca ho scritto su di lei – anche se non era facile a quell’università occuparsi di teoria queer. Ad ogni modo lei si è molto occupata anche del potere della parodia e si riferiva ad esempio a Paris is Burning (documentario sulla Ball Scene dei transgender a New York di Jennie Livingston, del 1990, ndr.). Sono cresciuta con quelle influenze e ho sempre ritenuto che la parodia contenesse una forza sovversiva molo utile.

Mi sembra ci sia una affinità di alcuni vostri video recenti con quelli del gruppo sudafricano Die Antwoord. Li conosci?

Certo! Sono una delle principali ragioni per cui abbiamo voluto impegnarci di più nella musica. Nel 2014 siamo state invitate ad un festival a Chicago (1127) . Noi eravamo li per tenere una conferenza dato che all’epoca non suonavamo ancora, non davvero. Dopo il simposio siamo andate tutte al concerto di Antwoord e ho pensato: «Questo cambia tutto. Posso cercare di convincere le persone a parole ma se usassi questa forma come fanno loro, di certo avrebbe un impatto maggiore». È così che ho iniziato a scrivere canzoni.

Alcune delle ultime le avete scritte pensando al movimento Black Lives Matter, in Usa. So che da sempre propugnate una solidarietà internazionale fra movimenti… Che impressione hai riportato delle manifestazioni cui avete partecipato qui?

Vorrei sottolineare la distinzione fra violenza contro le persone e quella contro la proprietà. Mi sembra che la seconda sia giustificabile proprio come forma di protesta contro la prima, che invece è inammissibile. Ad esempio quella sistemica contro i neri in America. Sono stata profondamente ispirata da Black Lives Matter sin dall’inizio. Sono felice che abbia infine trovato un riscontro così ampio, anche se per averlo è stato necessario passare per una tragedia. È stato un momento doloroso. Le rivoluzioni sono momenti felici, ma spesso hanno un loro inizio con fatti drammatici. Spero davvero che non finisca qui ma che possa generare il grande cambiamento che è ormai necessario. Come attivista che ha preso parte a molte azioni e contestazioni, conosco l’importanza di commutare ad un certo punto la rabbia in forza costruttiva e so anche come ciò possa essere difficile. A volte si è indignati e ci si aspetta che dopo essersi ritrovati nelle piazze, tutto possa subito cambiare e invece purtroppo non è così. Ma conosco molte persone all’interno di BLM e so che sono consapevoli di questa dinamica. Ho piena fiducia nelle loro capacità di mobilitazione.
Non mi sembra di dover essere qui a spiegare a nessuno cosa voglia dire essere attivisti, voglio solo appoggiare la causa e amplificare la loro voce se possibile. Abbiamo pubblicato una canzone intitolata «Riot», avevamo pensato di suonarla dal vivo durante le proteste ma ci abbiamo ripensato. La polizia è troppo imprevedibile in questo paese.

Un’affermazione notevole fatta da qualcuno a cui non manca certo l’esperienza diretta con la violenza delle forze di sicurezza russe…

Credo che in America siano anche più estreme. Il problema qui è la diffusione delle armi, nella polizia ma anche nella popolazione. Da europea non riesco a comprendere il militarismo diffuso in questa società. In Russia, ad esempio, avremmo certamente fatto una performance per i manifestanti, ma in America dopo averne discusso, abbiamo convenuto che avrebbe potuto essere presa a pretesto per un reazione violenta della polizia. Ci siamo limitate a sfilare con gli altri.

Trovate che essere arrestate sia una componente necessaria della vostra resistenza?

Sinceramente, preferirei non venire arrestata. Purtroppo fa parte della mia vita. Essere militante in Russia non è facile, soprattutto una Pussy Riot. Proprio ora mentre parliamo un nostro compagno, Pyotr Berzilov si trova in carcere da due settimane, accusato di un crimine non precisato. La sua abitazione è stata perquisita, e non sappiamo di cosa verrà accusato. Potrebbe essere semplicemente un arresto preventivo per impedirgli di essere visibile durante la campagna per il voto sulla riforma costituzionale. Ad ogni modo, chiunque si esprima o sia connesso a Pussy Riot è costantemente sotto sorveglianza e perseguitato dalla polizia. In parte è per questo che vengo in America a registrare perché qualunque musicista che collaborasse con noi u in Russia passerebbe dei guai.