Nadia e Saeed si innamorano nonostante la guerra imminente e la violenza che li avvolge. Si amano, malgrado i miliziani che cercano di imporre con le armi il loro credo fanatico e le pressioni che li circondano: in pubblico lei indossa una tunica nera per sfuggire al giudizio dei religiosi ma anche alle molestie, mentre lui esita a lungo prima di abbandonarsi al contatto con il corpo di lei, temendo di tradire la propria fede. E così ogni giorno sperimentano una forma di resistenza silenziosa fatta di sguardi e carezze annunciate che li condurrà alla ricerca di una libertà più grande, lontano dall’inferno ospitato ormai dal mondo in cui sono cresciuti.
Mentre nell’immaginaria metropoli mediorientale dei due giovani amanti il conflitto si rivela «un’esperienza intima, coi combattenti vicini gli uni agli altri, e le linee del fronte definite al livello della strada che facevi per andare al lavoro», le speranze residue riposano nella possibilità di partire.

NUOVE IPOTESI di salvezza prendono forma. «Girava voce che ci fossero porte capaci di trasportarti in altri luoghi, anche molto remoti, lontano dalla trappola mortale in cui si era trasformato il loro paese».
L’amore di Nadia e Saeed diventa così il frammento di esistenza attraverso il quale ci è consentito di guardare all’umanità intera, alla sua condizione precaria, sospinta dal bisogno e dalla paura, ma anche da un irriducibile desiderio di libertà e di gioia: le misteriose porte grazie alle quali anche loro avranno accesso a una nuova chance di vita sono la straordinaria metafora del mondo globale nel quali i due amanti ci guidano dapprima incerti, quindi sempre più consapevoli di ciò che vogliono raggiungere. L’uscita di sicurezza per una vita che merita di essere vissuta, quale ne sia stato il prezzo.
Scandito da una scrittura limpida e da una capacità visionaria che innerva il racconto del reale, Exit West, traduzione di Norman Gobetti (Einaudi, pp. 160, euro 17,50) rappresenta per molti versi il compimento di un percorso compiuto dallo scrittore pakistano Mohsin Hamid, che ha passato gli ultimi anni tra New York, Londra e Lahore, attraverso un pugno di romanzi tesi a determinare quelli che potrebbero essere definiti come i codici narrativi del mondo globale.

HAMID INDAGA infatti i passaggi stretti e le zone d’ombra, spesso anche intime, di società sempre più interconnesse e il modo in cui gli individui portano su di sé le tracce contraddittorie di tutto ciò, tra pericolosi richiami identitari e l’apertura a un nuovo sentire cosmopolita. Un orizzonte definito compiutamente pure nella raccolta di interventi Le civiltà del disagio (Einaudi, 2016), nella quale invitava a superare le ultime vestigia di sedicenti radici culturali per «mettersi insieme, inventare un mondo post-civiltà, e quindi infinitamente più civile».

In questo senso, la realtà in cui ci trasportano Nadia e Saeed non è solo quella in cui siamo immersi, ma anche ciò che ne potrebbe nascere, in positivo, un giorno. Le nuove porte, che si spalancano un po’ ovunque, raccontano di un mondo di migranti e profughi, dal Medioriente a una Londra spettrale e incerta, dove soffia il vento del conflitto tra nativi e nuovi arrivati, dal confine tra Messico e Stati Uniti ai paradisi per pochi delle petromonarchie del Golfo. Ma è anche una nuova dimensione del vivere gli uni accanto agli altri che prende forma sotto i nostri occhi, dove nuovi migranti si mescolano con vecchie minoranze. Dove, come accade a Saeed alla fine del viaggio che porterà i due protagonisti in California, la fede musulmana avvicina chi arriva dai paesi arabi ai black muslim, o fa sentire un’anziana «nativa», da tempo sola, «di essere emigrata anche lei, tutti emigriamo anche se restiamo nella stessa casa per tutta la vita. Siamo tutti migranti attraverso il tempo». E anche la sfera della politica sta cambiando, c’è chi vorrebbe creare «un parlamento dell’area della baia di San Francisco, con membri eletti in base al principio una testa un voto indipendentemente dal luogo d’origine».

È STATA DURA, ma ci si è resi conto che i profeti di sventura raccontavano bugie e la paranoia del «declino» si è rivelata un mantra irrealizzabile. Molti avevano visto nelle migrazioni e nell’annuncio di un destino globale, l’avvicinarsi di una sorta di «fine del mondo», ma quando, infine, l’apocalisse sembrava essere arrivata, «non era apocalittica», vale a dire che «la vita continuava».
Le persone ne trovavano altre con cui stare «e futuri plausibili e desiderabili cominciavano a emergere, futuri prima inimmaginabili». Per Mohsin Hamid la Exit West è un’utopia che si realizza, il suo romanzo è un vademecum narrativo per il mondo che sarà.