Evento: Conversazione intorno al concetto di “fluidità” tra Nasser Rabbat e Nader Tehrani, moderata da John Ochsendorf nella sede dell’American Academy a Villa Aurelia, Roma (11 gennaio 2018).

Roma, 5 dicembre 2017. Appuntamento a piazza Santa Maria in Trastevere e da lì a piedi fino al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Andata (e ritorno) parlando in italiano e guardando quelli che Nader Tehrani (Londra 1963, vive e lavora tra Boston e New York) definisce i palinsesti di Roma. Non si tratta solo della sovrapposizione di elementi architettonici di epoche diverse, ma del loro impiego creativo che va al di là dell’originario aspetto funzionale. Come al Portico d’Ottavia dove frammenti marmorei di colonne, pietre e mattoni s’incastrano tra loro creando una nuova texture che include gli sbagli. E’ la prima volta che l’architetto e designer iraniano-americano si può concedere, grazie all’invito dell’American Academy (William A. Bernoudy Architect in Residence) un ritmo quotidiano che prevede lunghe camminate per la Città Eterna. “Ho sessanta giorni durante i quali devo vedere tutto quello che posso. E’ come un paradiso pedagogico.” – spiega Tehrani – “La storia urbana di Roma è per me una lezione centrale.” Il fondatore di NADAAA, preside dell’Irwin S. Chanin School of Architecture a Cooper Union, New York ha già soggiornato nella capitale nel 1983-84, ai tempi in cui era studente al RISD: “ritorno con un senso molto più diretto verso tutto ciò che tratta dei dettagli della costruzione, del linguaggio architettonico, delle strategie urbane. Roma, in questo senso, è qualcosa di nuovo per me.” Nel passato, che è molto più vicino a noi di quanto ci raccontino i libri, si riflette il presente: nelle straordinarie sale di Palazzo Massimo, ad esempio, quei volti antichi di donne e uomini, patrizi e plebei, escono dalla pietra con una vitalità espressiva di cui sembra di percepirne il fremito. Nader Tehrani li osserva a lungo, soffermandosi soprattutto sulla rappresentazione delle capigliature. “Le cose più difficili sono i capelli e le nuvole, perché si tratta rappresentare un effetto e non un oggetto. Le nuvole sono cinetiche. Poi ci sono i tessuti, i drappeggi, soprattutto quando si vede il corpo che c’è dentro. Si tratta della tensione tra il corpo e ciò che lo riveste, un concetto abbastanza architettonico.”

Hai esposto in occasione di diverse mostre. Quando è iniziata quest’avventura?

La mia vita professionale è cominciata nel 1986, ma il lancio è stato nel ‘96 quando ho ricevuto una telefonata da Terry (Terence) Riley che allora era curatore al MoMa di New York. Non gli ho creduto, pensavo che fosse un amico che mi stava facendo uno scherzo. Lui si arrabbiò. Era proprio lui! Aveva visto il nostro lavoro nella publicazione di Progressive Architecture – MPA e ci invitò al MoMa. Non voleva disegni, né modellini. Voleva proprio un pezzo di architettura, una costruzione per la mostra Fabrications (1998). Dopo ci sono state molte altre mostre, anche in ambiente accademico come alla University of Toronto, Princeton University, Harvard University e RISD, facciamo discorsi diversi per ogni pubblico.

Parli al plurale perché ti riferisci allo studio NADAAA…

Una volta mi sedevo davanti al tavolo e disegnavo tutto da me. Dopo 25 anni ho trenta persone che lavorano con me e due altri soci, Katherine Faulkner e Daniel Gallagher, una a Boston e l’altro a New York, oltre a sette collaboratori che stanno con noi da oltre dieci anni e, sotto di loro, molti giovani che lavorano duramente per i concorsi. La collaborazione è centrale nel mio lavoro e non è mai uguale, produce un’altra relazione. Adesso con skype, webex, ecc. lavoriamo per 24 ore, in base al fuso orario. Il nostro rapporto è molto orizzontale. Non ho un ufficio mio, lavoro in mezzo a loro. Stiamo in un grande spazio con trenta tavoli dove non c’è privacy, un ambiente apertodove il disegno è un atto pubblico.

Nel tempo è molto cambiato il lavoro e il vostro approccio all’architettura?

Il nostro lavoro è iniziato negli anni ’80, quando il mondo dell’architettura trattava due aspetti. Uno era la fine del post modernismo con architetti come Aldo Rossi in Italia o Michel Graves in America. Persone che volevano riscoprire nell’architettura la relazione con la storia e qualche volta con l’antichità. Una ricerca produttiva che riguardava forma, tipologia, iconografia e significato dell’architettura, ma senza alcuna relazione con l’architettura come costruzione. Dall’altro lato, questo era a metà degli anni ’80 , c’era un altro movimento che guardava alla filosofia, alla letteratura critica, alla decostruzione e al post-strutturalismo, piattaforme intellettuali che provavano a cambiare e sfidare il concetto di architettura come istituzione. Era un progetto intellettuale molto importante, perché pensava all’architettura non solo come moda, ma radicato in un’idea con basi ideologiche, però senza una dedica agli edifici o al concetto di costruzione. Anche per noi l’architettura è un progetto ideologico fatto di motivazioni, posizioni, dibattiti, ma il nostro lavoro non rifiuta l’architettura come costruzione. Lo assorbe e produce quello che le altre discipline non fanno, qualcosa di formale, spaziale e anche materiale. Noi pensiamo al materiale non come ad una questione professionale, ma concettuale. Il modo in cui il mondo è costruito richiede una ricerca, un atto innovativo anche al livello di materiali. Tutti i nostri progetti provano ad aprire uno spazio d’invenzione, mostrando come un architetto possa produrre nuove forme di conoscenza che uno scrittore non può fare. Perciò, per noi il dettaglio non è un risultato finale di un progetto, ma un fondamento metodologico, come un DNA.

Una parte del tuo lavoro è dedicata all’insegnamento. Come ti relazioni agli studenti?

Cooper Union ha una storia che per me è molto importante. Prima di tutto non è solo una scuola dove gli studenti studiano per diventare architetti, ma un centro pedagogico dove s’impara a chiedersi il perché del fare le cose e se ci sono altri modi per realizzarle. In architettura la domanda intellettuale è più importante che risolvere un aspetto tecnico. A Cooper Union siamo soliti dire che non stiamo lì per risolvere problemi, ma per formulare domande. La cosa più importante in architettura è insegnare a essere scettici, critici, polemici nel relazionare la storia al futuro. Se preparo uno studente solo alla professione, dopo dieci anni la pratica dell’architettura sarà molto diversa dal momento della sua laurea. E’ per questo che è meglio insegnare a pensare in modo critico, che a come risolvere un problema.

Tuo padre è stato console e ambasciatore all’epoca dello scià, per cui sei nato a Londra e cresciuto in Pakistan, Sudafrica e poi negli Stati Uniti dove hai studiato a RISD e Harvard, da adulto non sei mai più tornato in Iran?

Ho dovuto aspettare più di trent’anni per tornare. Solo quando ho compiuto quarant’anni ho potuto prendere l’esonero al servizio militare, perciò sono tornato per visitare il paese. Per dieci anni ho girato dappertutto. Tornavo ogni anno, almeno una o due volte. Prima ero stato solo a Teheran. Volevo conoscere meglio posti come Isfahan, Kashan, Shiraz, Tabriz, Yazd, Kerman, Mashhad e tanti altri villaggi. Quel mondo che da bambino non avevo visto.

Cos’è che ti ha affascinato del paese?

Tornare in Iran era sempre difficile, perché era come riconoscere una sorella che conosci bene, ma che non hai visto per trent’anni. Visitare una geografia con la sua cultura, poi, non riguarda solo l’architettura. E’ quasi un triangolo tra attitudine, cibo e luogo. Il cibo, in particolare, è molto importante per me. Non cucino tanto bene, ma trovo che la cucina sia un fatto architettonico. E’ costruire con alchimia dei sapori affascinanti. In Iran, come del resto in Italia, è così. Andare in giro ha sempre voluto dire spostarmi da un luogo architettonico, come un bazar o una moschea, ad un tè e poi un pranzo. Più o meno, sfortunatamente, sono turista nel mio paese, però capisco quello che dice la gente e posso innestarmi nel contesto. Mia madre mi parlava in farsi e francese, mentre mio padre – che aveva studiato in Inghilterra – parlava in inglese con me e mia sorella. Tutti noi dopo la Rivoluzione siamo arrivati negli Stati Uniti e ci siamo rimasti. I miei genitori sono morti a New York. Il legame con la cultura iraniana è stato successivo. E’ con alcuni amici che ho conosciuto da adulto in Iran, e che ora vivono negli Stati Uniti, che parlo in farsi e cucino iraniano. Da mia madre ho imparato a cucinare il koresh, uno stufato con cipolla di base. Si fa soprattutto con carne di agnello, pollo o piccione. C’è sempre una verdura che è centrale per ogni tipo di stufato. Un koresh è con le melanzane, un altro con le zucchine. Il mio preferito è con le verdure tagliate molto sottili, una combinazione di prezzemolo, spinaci, fieno greco (detto anche trigonella) e limone secco dal sapore leggermente amaro. Non mangiamo molto piccante, ma uniamo alle pietanze molta frutta secca, curcuma e cannella.