Pensare che il suo libro racconti una sola storia sarebbe fare torto all’acume e alla sensibilità che l’autrice dimostra pagina dopo pagina. Certo, in L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd, pp. 174, euro 15) Nadeesha Uyangoda ripercorre prima di tutto la sua vicenda di bambina nata in Sri Lanka e cresciuta, fin dalle elementari, a Nova Milanese, in Brianza. Ma ciò che si staglia oltre l’orizzonte personale, certo anche doloroso, ma sempre intriso di affetto, scoperte e speranza, è la consapevolezza di una normalità negata, per quanto affermata con forza dalla vita vera, che non riguarda solo lei. In un libro che segna da molti punti di vista una svolta, sospeso elegantemente tra il memoir e il reportage, questa giovane donna dalla pelle scura, già attivista e autrice freelance che da tempo si occupa di identità, razza e migrazioni, descrive cosa significhi sentirsi e vivere da italiani ma non esserlo per la legge, annunciando il Paese che sarà, ed è già nei fatti in un gran numero di casi, come tutti i limiti e le derive di quello che abbiamo intorno oggi.

Cosa significa essere «l’unica persona nera nella stanza»? Lei spiega come il suo libro nasca dalle esperienze che ha raccolto quando ha «smesso di fuggire dalla razza»: come è andata?
Significa non riconoscersi nella percezione degli altri: si è un corpo nero, alieno e straniero. In quanto tale, un soggetto nero non è mai se stesso, rappresenta sempre qualcos’altro – l’immigrazione, l’integrazione, l’ultimo caso di razzismo. Si esiste solo con queste vesti o in rapporto a esse. Questo ho scoperto quando ho smesso di fuggire dalla razza: non sono sicura che sia andata tanto bene.

Ragionando sul modo in cui definirsi e su come è stata di volta in volta etichettata, lei si interroga sul perché sia ancora difficile immaginare che «una persona di colore» possa essere italiana. A suo giudizio perché?
A me sembra che giochi un ruolo fondamentale l’attuale legge in materia di cittadinanza: come dico nel libro, un italoamericano, un sinoamericano, un afroamericano sono considerati cittadini statunitensi, indipendentemente dalle caratteristiche somatiche o dal colore della pelle. In italia, si è stranieri perché neri o di minoranza etnica. Ma al di là di questo, nella nostra società si fa ancora fatica a riconoscere una definizione di italianità diversa da quella diffusa tra l’età liberale e quella fascista: gli italiani sono bianchi – la bianchezza di questo popolo è stata così faticosamente raggiunta che sembra che non si sia disposti a rinunciarvi facilmente, nemmeno di fronte a una società tanto etnicamente sfaccettata.

Cosa ha significato crescere in Brianza, dove la Lega raccoglie ampi consensi e spesso governa? Fino a che punto la predicazione razzista di questo partito ha alimentato, non solo lì ma in tutto il Paese, una sorta di «senso comune» razzializzato?
In realtà sono cresciuta in una piccola città che ha visto alternarsi quasi esclusivamente amministrazioni di centro-sinistra, ma la Lega (allora ancora Nord) sia in termini di pensiero politico che come atteggiamento verso gli extracomunitari aveva attecchito nel territorio. Questo ha contribuito alla difficoltà di immaginare una persona nera come cittadina italiana. E quella che sembrava una specificità territoriale del Nord, si è poi diffusa anche altrove, oltre «la Padania». Non penso però che questo razzismo diffuso sia da imputare solo alla propaganda leghista, che mi pare sia stata costruita sulle basi di una storia coloniale e fascista.

Lei sottolinea come spesso anche chi si professa antirazzista non riesca però a considerare un nero come un italiano qualunque, ma immagini abbia necessariamente alle spalle una storia di sofferenza o di riscatto. Il problema resta la normalità di questa presenza?
Si ha la sensazione che, a destra come a sinistra, la politica non sia al passo con un Paese che è fatto anche di cittadini italiani appartenenti ad una minoranza etnica. Il fatto che la riforma della cittadinanza sembra non essere mai una priorità per nessun fronte politico avalla ancora di più questa idea (ora Enrico Letta ha rilanciato la proposta, ma si vedrà alla prova dei fatti). A questo scenario contribuisce anche la narrazione mediatica che racconta le storie e le esperienze dei soggetti neri come vite straordinarie – perché siano considerati italiani devono essere modelli aspirazionali, eccezionalità, fuori dall’ordinario. Per esempio, nel prossimo episodio di Sulla Razza, il podcast che conduco insieme a Nathasha Fernando e Maria Mancuso, una giovane italiana, Loredane Tshilombo, dice che alle persone nere in Italia «non è consentito essere mediocri». Non potrei essere più d’accordo.

La riforma della cittadinanza è spesso considerata una sorta di punto d’arrivo. Lei la considera uno snodo importante, ma sembra però valutarla più come una partenza.
Sì, la considero un punto di partenza. Non sarà sufficiente perché l’opinione comune, da un giorno all’altro, accetti che italiano e non-bianco possano essere un binomio. Tuttavia una nuova legge è necessaria, e con una certa urgenza, per avviare un processo di ridefinizione di cosa ci rende effettivamente italiani: una norma giuridica che non dica che si è italiani, in prima battuta, iure sanguinis è una norma che riconosce un’identità multiforme, non basata unicamente sulla discendenza e quindi, in qualche modo, sulla bianchezza.

Nel libro racconta di aver seguito diverse edizioni di «Miss Sri Lanka», come di altri concorsi di bellezza simili, e si interroga sul ruolo che il «colorismo» gioca anche in tali contesti. In particolare per una giovane donna, si può definire la questione del colore della pelle come una sorta di partita aperta su due fronti culturali e simbolici?
Il colorismo è una forma di discriminazione che privilegia le persone con una carnagione più chiara rispetto a quelle, delle stessa comunità, con una carnagione più scura. Quando parliamo di colorismo parliamo poi soprattutto di estetica femminile e dunque è anche una questione di genere, perché più spesso sono le donne a doversi omologare a un determinato canone estetico – quello europeo -, mentre gli uomini delle stesse minoranze perpetrano a loro volta questa discriminazione prediligendo partner, amiche, colleghe di carnagione chiara. Il colorismo è una discriminazione di cui si è vittima a partire dalle comunità straniere, e al di fuori di esse si presenta sotto forma di «privilegio della pelle chiara», che è poi il motivo per cui nelle pubblicità, nelle serie tv, insomma, in posizioni di visibilità, vediamo più frequentemente donne nere dalla carnagione chiara.

Manca poco al 25 aprile, una data a cui è molto legata: partecipa alle iniziative di quel giorno e ha fatto ricerche sulle donne nella Resistenza. Fino a che punto l’antifascismo di oggi, e l’idea stessa della Liberazione declinata al presente, ha raccolto la sfida dell’antirazzismo?
Qualche giorno fa, nel corso di una presentazione, ho dialogato con la scrittrice Gabriella Ghermandi, che mi ha fatto notare come nel mio libro, nel parlare di razzismo e antirazzismo, io parta sempre dal contesto americano, mentre lei è più incline a vedere una continuità tra fascismo e razzismo contemporaneo. Ci ho riflettuto molto, e ritengo che questi due approcci siano frutto di una questione generazionale e di quanto la cultura popolare americana abbia influenzato le due generazioni. È vero, dirsi antifascisti significa essere antirazzisti: è sicuramente così per me. Ma mi sembra che per le generazioni più giovani e forse soprattutto per i figli di genitori immigrati, sia più facile riconoscersi in una protesta #BlackLivesMatter di New York che nella biciclettata del 25 aprile. E forse questo significa che l’antifascismo non ha raccolto davvero la sfida dell’antirazzismo.

Lei segnala come di recente siano emerse anche nel nostro Paese nuove mobilitazioni antirazziste e come l’eco della morte di George Floyd, talvolta paragonata a quella di Willy Monteiro Duarte, abbia risvegliato le coscienze. Qualcosa sta cambiando?
Ho chiuso il libro con una nota di speranza, notando da un lato un attivismo digitale vivace delle seconde generazioni e delle minoranze etniche, dall’altro una presa di coscienza del razzismo strutturale anche da parte di persone che non lo subiscono. Allo stesso tempo, però, mi sembra che ci sia un distacco netto tra le voci e l’attivismo veicolato nel mondo online e la risposta del mondo offline. Il razzismo avviene in rete e là fuori, la risposta che arriva da una sola direzione non è più sufficiente.