Pubblichiamo un estratto dal volume «Aperte lettere», la raccolta di saggi critici e scritti giornalistici di Rossana Rossanda curata da Francesco De Cristofaro in libreria da domani per Nottetempo (collana «extrema ratio»). Lo stralcio che potete leggere di seguito si riferisce a uno scritto più ampio che Rossanda dedica alla «bontà» nell’«Idiota» di Fëdor Dostoevskij e pubblicato da Einaudi nel 2001 ne «Il romanzo (I) La cultura del romanzo», a cura di Franco Moretti.
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La bontà non ha fortuna in letteratura. Alcuni eroi sono «anche» buoni – come Federico nel Principe di Homburg o Levin in Anna Karenina – ma prima sono altro: Federico è un gran guerriero e sovrano, Levin un giusto. La loro bontà è aggiuntiva al carattere, ne è una modalità. Buoni sono certi uomini di Dio, ma pur sempre anzitutto di Dio, e spesso buone le eroine seconde, specie se adulte e madri, come se la bontà fosse qualità privata e minore. Ma la Brigitta di Stifter, modello d’eroina privata, non è specialmente buona. La bontà ha scarse icone. Non è una delle virtù teologali – fede speranza e carità –, anche se della carità è parente, e tanto meno una delle cardinali – fortezza, sapienza, prudenza, temperanza – fecondissime di personaggi. Evocata familiarmente, «sii buono, non è buono», resta vaga e in ogni caso scarsamente rappresentata.

Il 31 dicembre 1867 Fëdor Dostoevskij – quarantasei anni, alle spalle Umiliati e offesi, Memorie da una casa di morti, Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, Il giocatore e una foresta di racconti – scrive all’amico A.N. Majkov di essere preso da tempo dall’idea di «rappresentare un uomo del tutto buono» ma «temevo di trarne un romanzo, perché è troppo difficile. Nulla di più difficile, specie al tempo nostro». E il giorno dopo lo ripete in una lettera alla nipote S. A. Ivanova: «È un compito smisurato»: nel mondo è esistita una sola persona «positivamente buona, Cristo, sicché l’apparizione di quest’uomo smisuratamente, sconfinatamente buono è uno sconfinato miracolo».
E aggiungeva: Tutti gli scrittori, non solo russi ma europei, che hanno affrontato la rappresentazione di un uomo positivamente buono hanno fallito (…). Di uomini buoni nella letteratura cristiana il solo compiuto è don Chisciotte. Ma è esclusivamente buono perché è anche comico. Pickwick di Dickens è un’idea più debole, tuttavia enorme e anch’egli comico, e per questo ti prende tutto.

E TUTTAVIA stava misurandosi con questo inquietante personaggio: «Il romanzo si intitola L’idiota». Meno d’un mese dopo consegnava alla stampa la prima delle quattro parti del romanzo – ne aveva previste otto – e per tutto il 1868 ne avrebbe dettato il testo alla moglie rivedendolo rapidamente. Nell’ottobre scrive ancora a Majkov: «L’idea dell’Idiota m’è volata via … ma sono amaramente convinto che mai ho avuto un’idea poetica più bella e ricca di quella che m’è venuta addosso nel piano della quarta parte». E nel gennaio del 1869 alla nipote: «Finalmente. L’idiota è finito! Ho composto gli ultimi capitoli giorno e notte in uno stato d’angoscia. Di questo romanzo non sono contento, non esprime nemmeno la decima parte di ciò che volevo». Ma dice di amare ancora molto «la mia idea abortita». Un’idea che sembra essersi imposta con prepotenza. Ne testimoniano i taccuini: la tentazione d’un eroe assolutamente, positivamente buono si affaccia nell’autunno del 1867, mentre lavora a un romanzo nel quale appare un «idiota», un giovane di incerta origine e il cui comportamento sorprende, ma è una figura minore. La storia non girava attorno alla bontà, ma alla colpa; gli era stata suggerita da una notizia di cronaca nera, di quelle che lo attrassero sempre come sintomi d’un tempo malato.

UNA GIOVINETTA, Olga Umeckaja, aveva dato fuoco alla casa dei genitori ma il tribunale l’aveva assolta perché la vessavano orribilmente. Insomma, una colpa quasi necessitata. Ma mentre stende alcuni brogliacci del romanzo, via via succede che la giovinetta resta sfuggente e presto diventa una eroina seconda in una vicenda di agnizioni, violenze e denari nella quale appare anche un idiota. Su questa trama Dostoevskij lavora per tre mesi.
Fra il 30 novembre e il 30 dicembre del 1867 nei taccuini c’è una interruzione. Come se in quell’intervallo L’idiota si fosse divincolato e liberato demolendo l’impianto originario. Sparisce la giovinetta colpevole, spariscono le figure intorno e l’Idiota, uscito dalla crisalide, diventa il protagonista. Non è più misto di opposte pulsioni, è l’uomo assolutamente buono. E non un marginale, è un principe. Il principe Myškin. Ma Myškin non solo non somiglia agli «idioti» del romanzo precedente, non somiglierà neanche a don Chisciotte. Non vive in un mondo fantastico, né combatte contro i mulini a vento, non è innamorato di ciò che non è: se mai sprofonda nel reale, nel troppo umano. Non è risibile né di lui ridono, anche se ne giudicano eccessiva la generosità e imbarazzante la consequenzialità del condursi. Dicono «idiota» come per dispetto, la sua disponibilità urta la tepidezza altrui. Ma chi comincia ad ascoltarlo con un sorriso, termina serio.

MYŠKIN non è mai comico. E non è neanche una figura cristica, anche se molta critica così l’ha veduto con favore o furore a seconda che appartenesse alla corrente mistica o marxistica negli anni sovietici: non ha nulla di messianico, non si sente portatore d’una missione in terra (non più di quella che Dostoevskij assegna al buon popolo russo), non sarà incoronato di spine e deriso perché non si dice mai re, non fa miracoli, conosce l’incertezza e il timore. Inoltre, porta la tara d’un male, è vero, quasi divino – il grande male – l’epilessia. Un male che monta in un crescendo di inquietudine per attingere a uno stato breve di estrema lucidità e precipitare nel buio. Dal quale ci si risolleva lucidi, soltanto stanchi e consapevoli che tornerà. Dostoevskij sapeva che cos’era.

È dunque un personaggio senza precedenti. Forse quel che accomuna Myškin al cavaliere della Mancha è la sconfitta d’una creatura a suo modo d’eccezione. Più tardi, nel Diario di uno scrittore, Dostoevskij scrive del Don Chisciotte: «L’uomo non dimentichi di prendere con sé per l’ultimo giudizio il più triste dei libri … che poi è quel che resta in mano della vita». Anche al principe Myškin nulla resta in mano. L’ironia – «la più amata ironia che si potesse esprimere» – è nella disfatta della bontà. Messaggio paradossalmente anticristiano.

BIONDO, gli occhi miti e azzurri, il principe Myškin appare nel treno che sta arrivando a Pietroburgo in un’uggiosa alba di novembre, nebbia e gelo che si scioglie, stagione impura. Rientra da una clinica svizzera dove era stato mandato fin da bambino e curato da uno psichiatra dal metodo dolce, vivendo felice fra i ragazzini. Parla con un coetaneo, ventisei anni, ma bruno, lo sguardo cupo. Quanto Myškin è luminoso e aperto, l’altro, Rogožin, figlio ricco d’un mercante, è oscuro e diffidente. E fra loro interviene il cicalante Lebedev, coro dei clientes che farà da sfondo alla vicenda, un prometeo dell’umiliazione. Lo stesso giorno a Pietroburgo Myškin incontra le altre dramatis personae, tutte: a cominciare da Aglaja Epancina, la giovinetta bellissima che si affaccia alla vita, sorella delle Nataša Rostova e Kitty Šcerbackaja, fino a una creatura dallo sguardo altero e tragico della quale lo colpisce un ritratto e che prima di sera si troverà davanti aprendo una porta. È Nastas’ja Filippovna che, rimasta orfana e allevata da un amico di casa, ha scoperto di essere stata cresciuta non come moglie ma come squisita amante, e non lo perdona né a lui né a se stessa. Il principe entrerà fin dal primo giorno nel destino di tutti e tre, accompagnandolo e quasi spingendolo a esiti fatali.

Perché il male è già avvenuto. Il compagno di viaggio dagli occhi brucianti, Rogožin, è divorato dalla passione per Nastas’ja Filippovna, passione che è frustrazione, bisogno e arroganza.
Anche Nastas’ja Filippovna è ossessionata dalla caduta che considera irrimediabile: l’ex amante ha messo a disposizione una gran somma perché qualcuno la sposi togliendola onorevolmente di torno, e lei accetterà il giovane ambizioso che ha bisogno di quei soldi e però si vergogna di lei. Ma si deve sapere di questa abiezione. Mentre lei la svela in pubblico per umiliare se stessa e i due, arriva Rogožin con una somma più forte: ti compro io. Per il principe quella messa a nudo è insopportabile.
Prega Nastas’ja di accettare la sua mano. Nastas’ja è folgorata, le è restituita la dignità cui pensava di non avere più diritto. Ma è un attimo: come trascinare in una caduta ormai consumata quell’essere nobile e innocente? Dice a Rogožin: portami via. Prima o poi ti sposerò.

Questa di Myškin è bontà. Ma non è un’oblazione. Myškin non regge quella messa a morte simbolica, è trafitto dentro dalla sofferenza di Nastas’ja, umiliata e offesa. Nastas’ja non si sbaglia su di lui, non lo chiamerà mai idiota, è il solo uomo, dirà, che ha conosciuto; non accettandolo gli rende, pensa, bene per bene. Ma non si risolve a sposare Rogožin, sta con lui e non vista, mentre è il matrimonio che lui ardentemente vuole, il vincolo che solo la farebbe sua. C’è in Rogožin un bisogno tormentoso, un avere per essere e non riuscirvi, che spaventa il principe come un altro dolore.

NELL’INVERNO che seguirà a Mosca – ma ne sapremo da lontano, attraverso le voci di Pietroburgo – il principe s’è scoperto ricco, in casa di Aglaja si parla di lui, Nastas’ja lascia Rogožin, corre dal principe ma di nuovo se ne va, lo sguardo di Rogožin non lascia Myškin del quale è cupamente geloso. Ma i due si attraggono come i poli magnetici, come gli opposti (la critica psicoanalitica penserà Rogožin come una proiezione del principe e viceversa); quando Myškin torna a Pietroburgo qualcosa lo spinge a cercare la casa di Rogožin. La riconosce dall’aspetto fosco e, in quella che è forse la scena più bella del romanzo, Rogožin, che non parla mai, con lui parla, per quanto può si confessa, prega la vecchia madre, quasi un’icona, di benedire Myškin. E davanti a una copia della deposizione di Holbein a Basilea, parlano del Cristo che vi appare così finito da far dubitare della resurrezione, chiave del cristianesimo. Che è amore e speranza, come la Russia semplice e fedele che pure è il luogo degli eccessi, va sempre «oltre» anche nell’errore.