Un regista che non è solo un regista, un’attrice che non è solo un’attrice. Due sensibilità in una, a dispetto delle gerarchie che vegliano sulla macchina industriale del cinema. Un rapporto dinamitardo, quello che ha legato Alain Tanner e Myriam Mézières. Una comunione, la loro, destinata a rigettare la matematica dei ruoli, a demolire gli steccati che separano realtà e rappresentazione, simulazione e verità: chi guida chi? Tre film fondamentali: Una fiamma nel mio cuore (1987), Le journal de Lady M. (1993) e Fleurs de sang (2002). Myriam Mézières li attraversa da «presenza attiva»: penna vagante, mente e corpo, anima e sangue. Interprete e sceneggiatrice, sceneggiatrice e interprete (dell’ultimo è anche coregista), al servizio di un processo creativo che conduce l’autobiografia a rigenerarsi nel vivificante contatto con la finzione.

Una scrittura, quella di Mézières, che è innanzitutto verifica, autoanalisi, anelito di sopravvivenza. Per mano di Tanner questo materiale «vivo», già lavorato, decantato nelle increspature dell’esistenza, si apre alle forme di una visionarietà che rivisita con spregiudicato piglio critico le parole cesellate su carta. In nome di una distanza necessaria, un’altra decifrabilità possibile, nei cui solchi stemperare gli eccessi di un tracciato biografico ripido e sdruccioloso quant’altri mai. Universi fatti di bianchi e neri accecanti (Una fiamma nel mio cuore), colori opachi, brumosi, avvolti dalla sottile discrezione del 16mm (Le journal de Lady M.), ombre a lungo represse negli anfratti della memoria, sottratte all’esperienza e consegnate alla scabra immediatezza del digitale (Fleurs de sang).

Myriam Mézières presenta in Spagna la sua autobiografia, El sol tiene una cita con la luna, edita per i tipi di Chapiteau 2.3. «Il sole ha un appuntamento con la luna»: un invito a forzare la presunta incompatibilità degli opposti, a fare dell’impossibile un brandello, ancorché esiguo, di possibile. Un racconto colmo di sussurri (e grida), immerso in un tempo senza tempo, nobilitato da una scrittura densa, originale, sofferta, che trova nelle illustrazioni di Ignasi Blanch uno smagliante controcanto visivo. Dietro le apparenze di un libro innocuo, prossimo nella grafica al gentile incanto della pubblicistica infantile, si cela un diario intimo di impietosa crudezza, anche commovente, che non rinuncia all’esercizio della più disarmante sincerità. Una caramella al veleno. La storia di una giovinezza calpestata – frammentaria, selettiva, ellittica, restituita al lettore nel disordine con cui la memoria attinge ai labirinti del vissuto –, destinata comunque a rinascere dalle sue ceneri, in un catartico riscatto.

Perché hai scritto questo libro? Forse per «sopravvivere a te stessa», come hai dichiarato recentemente rifacendoti a Blaise Cendrars?
Molto bella questa frase di Blaise Cendrars… Il libro, devo confessarlo, nasce da un’intuizione dell’illustratore catalano Ignasi Blanch. Mi sono trovata a scriverlo in un momento particolarmente difficile della mia vita, senza subire alcuna pressione da parte dell’editore. La redazione del testo, lunga e complessa, mi ha aiutata a risalire la china. È stata un’esperienza magnifica. Dopo varie sceneggiature e qualche canzone, non avrei mai pensato di scrivere un libro. La scrittura è un balsamo straordinario, soprattutto quando ci si può permettere il lusso di ignorare i dogmi del mercato.

Hai scritto «El sol tiene una cita con la luna» direttamente in spagnolo. Una scelta premeditata?
Amo molto gli scrittori latinoamericani. Ernesto Sabato, Borges, García Márquez… Mi sento in profonda sintonia con il loro universo poetico. Lo spagnolo, poi, è una lingua che mi appartiene. Ma il mio diario lo scrivo in inglese.

I tre film più importanti che hai realizzato con Tanner sono il frutto di altrettante confessioni autobiografiche. Possiamo considerare «El sol tiene una cita con la luna» come il quarto capitolo di un diario multimediale «in progress»?
Sì, mi piace questa interpretazione. In fondo, un autore scrive sempre lo stesso libro, fa lo stesso film, senza per questo rinunciare a rinnovarsi.

Autobiografia e rielaborazione critica, realtà e finzione: quale rapporto?
L’elemento autobiografico è il cardine intorno al quale gravita tutto quello che scrivo, ma non sono interessata a impantanarmi nelle sabbie morte dello psicodramma. Un film o un libro non possono essere ridotti a surrogato di una seduta di psicoanalisi. Il materiale biografico deve fare un salto, assurgere a un altro livello di esperienza, sublimarsi in una struttura precisa, stilisticamente compatta. Senza finzione non c’è verità. Quando ricordo non posso fare a meno di contaminare, rivisitare il dato vissuto. Quale «dato vissuto», poi… Il ricordo non restituisce mai l’immagine dei fatti così come si sono verificati. Il ricordo può essere parecchio ruffiano, un po’ come il sogno. Guardiamo al passato con gli occhi, o i paraocchi, del presente: è inevitabile.

Come ti rapporti con l’esercizio della scrittura?
Quando scrivo sono terribilmente ossessiva. Il lavoro d’attrice mi ha abituata a una ferrea autodisciplina. Sposto, cancello, intervengo in continuazione sul testo. Tanner diceva che la direzione di un film – come anche la scrittura di un testo – è un «combat d’arrière-garde». Sono mossa dalla smania di conferire la giusta forma alle intuizioni che inseguo dentro di me. La forma è tutto. Quello che dico, paradossalmente, mi interessa meno.

Stupisce l’assenza dal tuo libro di Paul Vecchiali, regista con cui hai realizzato «Change pas de main», uno dei film più inventivi e coraggiosi degli anni Settanta (anni che, in fatto di inventiva e coraggio, non si sono certo risparmiati).
Mi stupisco anch’io. Ma, a pensarci bene, ho tenuto fuori dal libro quasi tutti i registi con cui ho lavorato: Andrej Zulawski, Fernando Arrabal, Claude Lelouch, Jean-Pierre Mocky, Jean Delannoy, Yves Boisset, Claude Berri, Uwe Schrader, Manuel Gómez Pereira, Cesc Gay… «El sol tiene una cita con la luna», del resto, è un’autobiografia assai poco convenzionale. La mia relazione con Vecchiali, ad ogni modo, è sempre stata ottima. Change pas de main è legato a ricordi bellissimi, e così anche Corps à cœur e En haut des marches, nei quali ho interpretato dei ruoli di contorno. Vecchiali ha tutta la mia stima, come regista e come uomo. Di recente, tuttavia, non ha esitato a fulminarmi con queste parole: «Cara Myriam, tu non fai parte della mia famiglia cinematografica…». Forse per punzecchiare la mia natura apolide, da girovaga cronica. Il concetto stesso di «Patria» mi è del tutto estraneo. D’altro canto, non ho mai piantato radici nel cinema francese.

Un ricordo di Alain Tanner, con il quale hai condiviso anni di rilevante fertilità creativa.
Negli anni Ottanta e Novanta era solito affermare: «In futuro l’umanità sarà ostaggio di una doppia polarità: in alto siederanno i fabbricanti di menzogne – e mimava con le dita l’atto di scrivere su una tastiera –; in basso, tutti gli altri, a elemosinare e ad alimentarsi di quelle stesse panzane». Una profezia lucidissima.

Progetti per il futuro?
Sto ultimando il montaggio di un corto da me scritto, diretto e interpretato. Si intitola Tinta ed è prodotto dalla catalana Imposibles Films. Voglio sperare che il futuro abbia in serbo per me ancora molte sorprese.