Negli ultimi decenni lo stato del Myanmar ha intenzionalmente formulato e perseguito piani a livello nazionale e statale volti ad annientare il popolo Rohingya e ad escludere i musulmani dalle posizioni di governo e dell’esercito. Una persecuzione e discriminazione sistematica avviata nel 1962 col coup d’état e ripresa dai successivi governi.

Uno degli episodi più violenti è avvenuto nel maggio del 2001 a Taungoo (città a 200 chilometri a nord di Yangon), con vari focolai di violenza tra comunità buddiste e musulmane. Secondo Human Rights Watch più di mille persone guidate da monaci buddisti (tra cui membri della USDA, Union Solidarity and Development Association e personale della MI, Military Intelligence) hanno attaccato, distrutto e incendiato negozi, abitazioni e moschee provocando la morte di circa 200 musulmani. Alcune famiglie sono state costrette a fuggire e ad abbandonare la città, altre a chiedere ospitalità ai loro parenti. A tutt’oggi i danni e gli effetti delle tensioni del 2001 sono ancora chiaramente visibili: moschee chiuse, abitazioni vuote e abbandonate, molestie nei confronti della popolazione mussulmana.

A testimonianza di tutto ciò un padre di famiglia ci racconta quello che ha vissuto durante le violenze di due decenni fa. Ad approfondire l’argomento una intervista al ricercatore Arnab Roy Chowdhury, docente alla Scuola di sociologia alla Higher School of Economics di Mosca. Specializzato in sociologia delle migrazioni, studi post-coloniali, sociologia comparata e storica ha di recente pubblicato un articolo a carattere scientifico sulla crisi dei rifugiati Rohingya e il nazionalismo in Myanmar. Arnab sostiene che l’emergere dell’identità Rohingya è costitutivamente legata alla trasformazione dello Stato e ai cambi di potere durante l’epoca precoloniale, coloniale e postcoloniale. Il nazionalismo religioso ed esclusivista ha trovato nell’immagine dei «musulmani Rohingya» il nemico, l’altro, e tutto ciò si è verificato in uno Stato all’apparenza democratico. Sotto la transizione neoliberale, facendo leva su paure, disincanto, insicurezza e rabbia di una popolazione a maggioranza birmana, la dittatura del governo fascista ha utilizzato il richiamo anticoloniale, xenofobo e populista sposandolo col fanatismo religioso buddista. Una grande parte dei musulmani ha di conseguenza interiorizzato lo stigma e ha incominciato utilizzare questo victimhood (come lo descrive Arnab, l’essere e sentirsi vittime) come simbolo della loro lotta e resistenza.

Professore, ci racconti com’è nata la marginalizzazione (tramutata in una vera e propria persecuzione) dei musulmani in Myanmar.
La persecuzione dei musulmani è il risultato di un lungo processo che trova le sue radici nell’epoca coloniale, il culmine è avvenuto nel 1962 col coup d’état. Per capirla però dobbiamo partire dal periodo precoloniale.
Nel 1430 il regno di Arakan (l’attuale stato di Rakhine e la divisione di Chittagong in Bangladesh) dove attualmente vivono i Rohingya, era governato da un re buddista conosciuto anche con il titolo musulmano di Suleiman Shah. In quel regno buddisti e musulmani convivevano pacificamente assieme, esso era un punto d’incontro tra il sud-est asiatico e il sud dell’Asia per commercianti e altre etnie come indiani, persiani, bengalesi, arabi. Molti di essi si sposarono anche con le donne locali. In questo contesto tra i portoghesi e i pirati Mugh era frequente la vendita di schiavi, a prevalenza musulmana- bengalese, costretti a coltivare i campi di riso. Schiavi che ben presto si stabilirono nel regno tanto che i bengalesi a metà del XVIII sec. rappresentavano la maggioranza della popolazione dello Stato del Rakhine.

Nel 1784 il Myanmar conquistò il regno di Arakan. Questa annessione produsse nuovi confini culturali, religiosi (buddisti e musulmani), oltreché geografici. Chi abitava il nuovo Stato promosse il buddismo e introdusse la religione nella letteratura di corte. In quanto ai confini, da ricordare che una catena montuosa e un fiume dividevano e isolavano geograficamente la minoranza musulmana dalla società buddista dell’Irrawady. Quando nel 1824 arrivarono, gli inglesi cercarono di annettere lo Stato del Rakhine e di mappare le diverse etnie e popoli indigeni rifiutando la cultura musulmana e promuovendo, al contempo, quella buddista. I musulmani vennero considerati degli stranieri e i Rohingya non vennero nemmeno ritenuti una etnia. Arrivarono inoltre molti migranti dall’India, dal Bangladesh e dal sud-est asiatico, portati come forza lavoro a basso prezzo dagli inglesi per lavorare nei campi. Alcuni di loro facevano anche i commercianti ed avevano una istruzione media.

Nel corso dei decenni si venne così a formare una gerarchia dove all’apice c’erano gli inglesi stessi, più sotto gli indiani (tra cui Sikh facenti parte dell’armata inglese) e i cinesi, alla base i birmani. In risposta a questa situazione in Myanmar nacque il movimento nazionalista, razzista e xenofobo contro i sud-est asiatici, sud asiatici e bengalesi, considerati collaboratori degli inglesi e traditori del paese, coloro che inquinavano la razza birmana dando alla luce bambini chiamati Kapya. Avevano la pelle scura, rubavano il lavoro, i loro diritti e le loro mogli. Dopo la decolonizzazione del ’48 i mercanti indiani decisero di abbandonare il Myanmar ma la maggioranza dei musulmani che lavoravano nei campi rimase a vivere nello stato dell’Arakan. Pur non essendo coloro che un tempo avevano sfruttato i birmani, diventarono ben presto il capro espiatorio del razzismo ripreso nel 1962. Una breve parentesi per la verità vi fu quando al potere salì il primo ministro U Nu, padre di Aung San Suu Kyi, che portò al governo anche i musulmani scegliendo così una politica di riconciliazione e di riconoscimento della minoranza Rohingya. Nel ’62 però intervennero i militari con il primo colpo di stato, essi indicarono come nemico pubblico ancora una volta i musulmani e iniziarono a governare con la violenza. Nel ’78 fu perpetrato il genocidio che si ripeté nel ’92 e ’96 ed è proseguito di recente nel 2012 e nel 2015.

Quale identità viene attribuita oggi al musulmano nell’immaginario collettivo?

A causa del ruolo significativo che i musulmani, come ho già spiegato, avevano giocato nell’amministrazione del Myanmar durante il dominio britannico, il gruppo divenne un paria per i birmani nazionalisti che negavano la loro lunga storia nella regione e sostenevano il loro arrivo illegale durante l’occupazione britannica. I nazionalisti, soprattutto nello Stato di Rakhine, oggi non vedono alcuna differenza tra le comunità musulmane bengalesi residenti da lunga data nella regione e gli immigrati del Bangladesh, tanto che quando si riferiscono ai musulmani Rohingya li chiamano «bengalesi». Un termine che usano anche per delegittimare la loro presenza nel paese, e forse peggio, negare la loro stessa esistenza. Per loro non hanno mai avuto uno status ufficiale in Myanmar.

L’immaginario collettivo attualmente è alimentato dalla politica della paura creata dal governo militare: i musulmani sono indicati come pericolosi terroristi, opposti ai buddisti non violenti, accusati di voler fare una guerra contro lo Stato per creare una «nazione musulmana» e indipendente. La legge dei militari è fondata sulla nozione popolare di «razze indigene» o «figli originari del suolo» (Tayintha in birmano), contrapposti ai Kalar (sud asiatici). Derivato dalla parola Kala, che significa nero, Kalar è il termine locale e razzista per indicare le persone dalla pelle scura. Questi termini hanno la capacità di attingere a una memoria sociale condivisa dell’ingiustizia passata che può essere rettificata solo da un’azione, di solito estrema e definitiva, contro il gruppo colpevole. L’odio è fomentato da un senso di profonda ingiustizia storica, e il potere attinge risorse ed energia alimentando la violenza.

Che peso e che ruolo ha la religione in questo contesto, e in che misura viene riutilizzata dalla società civile e dalla maggioranza di governo di matrice buddista?
Con la salita al potere del governo autocratico e fascista è avvenuto in Myanmar una buddizzazione di massa. I militari sostengono che solo loro possono salvare il paese. Facendo leva sulla religione hanno diviso e polarizzato le masse.

Come vede l’evolversi della situazione nei confronti della minoranza musulmana dopo il colpo di stato del primo febbraio?
Sarà una tragedia per tutti, non solo per i musulmani ma anche per le altre minoranze (Shan, Mon, Karen, Chin, Kachin, ecc…) che vivono nel paese e che compongono il puzzle etnico del Myanmar. In quanto al milione di rifugiati Rohingya nei campi del Bangladesh, considerati rifugiati permanenti, credo che nel prossimo futuro una soluzione possibile sia l’intervento dell’Onu con la creazione di un corridoio di salvezza che permetta loro di tornare in Myanmar. I paesi come l’India, Singapore e Cina dovrebbero attivarsi per condannare pubblicamente il colpo di stato e il genocidio tagliando ogni relazione commerciale.

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La testimonianza
Karim (nome di fantasia per salvaguardare la sua sicurezza), padre di famiglia, ci racconta quello che ha vissuto negli attacchi del 2001.

Karim, spiegaci cos’è successo durante le violenze del 2001 a Taungoo.
Nel 2001 avevo 5 anni e vivevo con i miei genitori, mio fratello e mia sorella in una casa costruita dal nonno. Il giorno in cui sono scoppiate le violenze ero davanti il negozio di famiglia a giocare con mia sorella quando un vociare in lontananza preannunciò l’arrivo di qualcosa di inaspettato. I vicini arrivarono di corsa parlando di buddisti birmani che avevano attaccato negozi e ristoranti di proprietà di musulmani nel centro di Taungoo. Noi a quel tempo abitavamo nei pressi del fiume Kha Phaung, a svariati chilometri dal centro dei tumulti. Mio padre ci ordinò di rifugiarci in casa e chiudere la porta mentre andava a trovare la nonna. Mia madre era quella che aveva più paura, mentre io e i miei fratelli non ci rendevamo conto della situazione. Mio padre ritornò dopo mezz’ora dicendo che una moschea era stata attaccata e che doveva lasciarci per adempiere alla jihad. Nei giorni a venire le violenze scoppiarono regolarmente in diverse parti del paese e alcune moschee a Taungoo vennero bruciate. Mi ricordo che io e la mia famiglia siamo andati a vivere per dieci giorni in un hotel gestito dall’amico di famiglia, Shivam. Ci avevano dato una camera singola, quando eravamo in cinque. In quei giorni non potevamo pregare nelle moschee perché era stato dichiarato il coprifuoco e quindi eravamo costretti a fare la Salat in albergo. Nei giorni successivi i morti aumentavano e anche alcuni bambini più piccoli di noi e donne incinte perirono per mano dell’esercito. Alcuni furono picchiati a morte, ad altri spararono. Spesso li prelevavano dalle loro case, dai treni e dagli autobus per giustiziarli. In questo bagno di sangue ci eravamo noi, terrorizzati e spaventati.

Ora dove vivi?
Vivo assieme a mia moglie e a due miei figli. Faccio il meccanico e abito in una delle «case di reinsediamento» costruite nel 2005. Sto cercando di guadagnare abbastanza soldi per poterci permettere un appartamento a Yangon e fare il bidello di una scuola elementare.

Com’è la tua vita da musulmano in Myanmar e quali ostacoli dovete affrontare?
La comunità mussulmana rimane essenzialmente segregata e la situazione umanitaria è difficile. Viviamo costantemente in un clima di terrore e continuamente abbiamo paura di rappresaglie, insulti e denigrazioni. Per qualsiasi genere di lavoro veniamo sottopagati e spesso non ci prendono in considerazione. Non sono mai stato nello stato del Rakhine ma sappiamo che i Rohingya sono stati uccisi in massa dall’esercito militare e dalle forze di sicurezza. I risentimenti tra buddisti e musulmani sono profondamente radicati e derivano da entrambe le comunità che si sentono assediate una dall’altra. Io non ho mai provato odio nei confronti di altre religioni e il rispetto è stato alla base della mia vita da bravo musulmano. Però ti dico che ho paura. Io temo di trovare un giorno mia moglie stuprata e mio figlio con la testa mozzata, come è successo in altre parti del paese.

Hai mai pensato di lasciare Taungoo e fuggire dal Myanmar?
Sì certo. Già nel 2001 alcuni miei amici sono fuggiti nelle città limitrofe. Qualcuno è andato a Taekaw, altri a Dathwegyauk, altri ancora in alcuni piccoli villaggi a casa di parenti. Un mio caro amico ha provato a ritornare a Taungoo ma ha ritrovato la casa di suo padre rasa al suolo. Quello fu l’ultimo giorno in cui lo vidi e ne sentii parlare.

Vorrei andarmene in Malesia, dove l’Islam è considerata la religione ufficiale del paese. Mio padre mi avevo parlato di alcuni lontani parenti dalle parti di Kuala Lumpur. Ciò che però mi spaventa è la traversata e i trafficanti d’uomini. Nel 2015 sono morti innumerevoli musulmani al largo del mare delle Andamane. La paura però ci tiene fermi dove siamo e sembra non ci sia via di scampo. Da piccolo avrei voluto giocare a calcio in una squadra italiana, mi piacerebbe essere un calciatore famoso.