Era il 16 ottobre del 1943 quando i nazisti partirono alla caccia degli ebrei romani, abitanti principalmente nella zona del ghetto, al portico d’Ottavia. Ne vennero catturati 1023 che furono imbarcati per Auschwitz. Ne tornarono 17. Un dato spaventoso. Per questo ieri, 16 ottobre, l’evento speciale di inaugurazione del Festival di Roma è stato My italian secret, il documentario di Oren Jacoby, che ha ricevuto anche un messaggio di plauso dalla Presidenza della repubblica. Che si conclude citando Piero Terracina, unico sopravvissuto della sua famiglia, che a proposito delle leggi razziste volute dal regime fascista e sull’indifferenza di tanti dichiara nel film: «Ci hanno portato sull’orlo dell’abisso dove le Ss ci hanno fatto precipitare».

Ma il documentario, pur partendo dalla persecuzione degli ebrei in Italia, cerca di aprire qualche spiraglio di luce perché alla fine della guerra erano sopravvissuti alla Shoah circa l’80% degli ebrei italiani. E molti di loro sono sopravvissuti grazie a persone che hanno rischiato la loro stessa vita per salvare degli sconosciuti. Jacoby, statunitense, accompagna in Italia Ursula Korn Seligun e Charlotte Hauptman, due donne scampate allo scempio, portandole sui luoghi che avevano conosciuto e seguendole mentre incontrano le persone o i discendenti di chi ha permesso loro di salvarsi. Anche Gaia Servadio, padovana, ha modo di raccontare l’avventura della sua famiglia finita bene non per fortuna, ma perché aiutata. Già, perché mentre molti erano indifferenti, altri voltavano la testa dall’altra parte per non vedere e alcuni addirittura si sono trasformati in complici degli aguzzini, perché esisteva una taglia di cinquemila lire per chi avesse permesso di catturare un ebreo, qualche italiano aveva deciso di rischiare, senza dare troppa enfasi alla cosa. E Jacoby ricostruisce e racconta alcune di queste figure eroiche. Il più famoso è stato senz’altro Gino Bartali, il ciclista che nel 1938 vinse il Tour de France, rifiutando però di diventare uno strumento del regime. Quando Firenze era occupata dai nazisti il cattolico Gino piazzò una famiglia di conoscenti ebrei nella sua cantina, mettendo così a rischio non solo la sua incolumità, ma anche quella della sua famiglia.

Ma non si era accontentato, approfittando del suo status di campione che doveva allenarsi percorrendo centinaia di chilometri e munito di apposito lasciapassare, Bartali entrò a far parte di una struttura segreta e organizzata dal cardinale Elia Della Costa, arcivescovo di Firenze. La faccenda funzionava così: sparsi nel territorio c’erano diversi monasteri, dalla Liguria alla Toscana all’Umbria, che davano rifugio a ebrei e dissidenti, Bartali nei suoi giri li visitava con regolarità trasportando nel tubolare della bici i documenti falsi che poi permettavano ai braccati di fuggire. Centinaia, forse migliaia di persone si sono salvate in questo modo. Bartali non ne ha mai fatto cenno, solo dopo cinquant’ anni ha raccontato la vicenda a suo figlio Andrea, raccomandadogli di non dirlo a nessuno, almeno sino a quando non fosse giunto il momento, perché come dice Gino nella sua biografia: bisogna fare il bene perché è giusto, non per vantarsene.

Anche Giovanni Borromeo, medico presso l’ospedale di Roma si era dato da fare per salvare ebrei. Aveva creato un padiglione in cui ricoverarli perché affetti da una fantasiosa malattia mortale e contagiosa, il morbo di K (sarcastico omaggio a Kesserling o Kappler?), riuscendo così a tenere alla larga i nazisti impauriti. Il rabbino Ricardo Pacifici (omonimo del nipote, attuale presidente della comunità ebraica romana) che supportava l’organizzazione Delasem venne invece ucciso insieme alla moglie, mentre il loro bimbo venne salvato dalle suore di un convento. Piccole grandi storie di umanità.