Chi era Eadweard Muybridge? Se si cerca risposta in rete – magari sul sito dell’Encyclopaedia Britannica – si possono sicuramente trovare diverse informazioni ma che, alla fine, riconducono idealmente a definizioni e storie. È presto detto per quanto riguarda le definizioni, dal momento che parliamo di un fotografo inglese universalmente riconosciuto fra i più importanti di sempre per il suo pionieristico studio sul movimento dei corpi.

Sulle storie, invece, si possono avere una serie di spunti tali da suggerire la personalità del nostro in vita – per esempio: dai motivi del cambio di nome (si chiamava Edward James Muggeridge) a quelli del viaggio e della vita negli Stati Uniti; dal caso di omicidio in cui fu coinvolto alle particolarità delle ricerche visive.

Un uomo senza dubbio complesso e il cui lavoro, va da sé, si spiega pure in relazione agli anni della sua biografia (1830-1904), un’epoca in cui l’uso della fotografia tra scienza e arte ha portato indiscutibili cambiamenti culturali e sociali.

«Storia!» esclamerà qualcuno o qualcuna a questo punto, e magari con un filo di disprezzo. «Certo» glisseremo noi, aggiungendo che oggi sopravvivono le sue immagini ad evocarla, trasfigurarla e dirci altro, come (di)mostra Muybridge Recall, la mostra dedicata alla fotografia di Muybridge che inaugura alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese, a Palazzo delle Stelline, Milano, 19 maggio – 1 ottobre (inaugurazione il 18 maggio).

A cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio – con la consulenza scientifica di Italo Zannier, un nome fra i più studiosi di fotografia in Italia – Muybridge Recall, «oltre 50 scatti cronofotografici su lastra, tratti da fedeli riproduzioni degli originali custoditi alla Wellcome Library di Londra, che li ha gentilmente concessi alla mostra a scopo didattico», «non si limita a presentare un focus sulla storica produzione di Muybridge», dal momento che «verrà anche ricomposto, in chiave contemporanea, il set che egli usava per gli scatti in piano sequenza, che si animerà con una performance, durante la serata inaugurale, nella quale due o più personaggi e attori attraverseranno il ricostruito piano sequenza, generando degli scatti per un’attuale interpretazione “alla Muybridge”» – inoltre, «del percorso di visita faranno parte anche L’assassino nudo e un Film stenopeico, docu-films originali realizzati da Paolo Gioli.»

Così dalla presentazione.

Ma a questo punto, elaborando in maniera sintetica quanto scritto dai curatori nel testo del catalogo, si potrebbe dire che l’intento della mostra sembrerebbe essere quello di presentare un discorso sulla fotografia di Muybridge centrato sulle qualità ritmiche, dinamiche e virtuali dell’immagine secondo il nostro.

Detto altrimenti: qualcosa che tenti di rovesciare la distanza storica in opportunità di riscoperta, da «filtro critico» a «contesto culturale». Un’occasione per l’osservatore contemporaneo.

Per questo – ipotizziamo – l’approccio migliore potrebbe essere quello di seguire le voci di alcune persone che osservano le fotografie di Muybridge presenti in questa mostra.

Eccone allora tre. Ci avviciniamo discretamente. Le sentiamo parlare, discutere, divertirsi.

Uno zoo particolare?

«Mi sembra una associazione tra arte e scienza», dice Stefano agli altri ma anche un po’ a se stesso, incuriosito e sorpreso da alcune immagini più di altre. «A me sembra più uno studio del movimento degli animali», ribatte ancora più sul pezzo Chiara – e come darle torto alla fine, vista la presenza di un gran numero di canguri, cavalli, scimmie, uccelli e chi più ne ha più ne metta.

I tre ora si soffermano su una sequenza fotografica dedicata alla rappresentazione di un altro animale, l’elefante. «Guardate l’elefante!» Fa Chiara. «Non appare molto più scuro in alcuni… chiamiamoli fotogrammi, e invece più chiaro in altri? Non so, forse dipende da dove lo sto guardando… qua in alto per esempio mi sembra molto più scuro rispetto a quello che è qua, come se fosse data una diversa luminosità per dare una profondità diversa.» «Forse dipende dal mezzo che aveva a disposizione», interviene Alessandro, mentre invita gli altri a spostare lo sguardo sulla sequenza di immagini dedicata all’uomo a cavallo. «E questo cavaliere a cavallo, voi che ne dite, non lo considerate comunque nella categoria degli animali?»

Mentre li guardo scrutare le foto, in silenzio, tra me e me penso che questa detta da Alessandro sia una osservazione giustissima, che inoltre permetterebbe di leggere le immagini di Muybridge in modo quasi sistematico – dico quasi perché nella mostra sono presenti anche fotografie meno note, cioè quelle di paesaggio da lui realizzate prima e durante gli anni della svolta dello studio sul movimento: per esempio di Acajutla (El Salvador), oppure di Acapulco (Messico).

A questo punto però la questione uomo-animali merita un ulteriore approfondimento. Perché, come detto, mi sembra una osservazione giustissima? Al di là del dato scientifico (l’uomo è un animale), quello che è interessante rilevare in relazione al rapporto tra mondo umano e mondo animale nella fotografia di Muybridge è che questa, lungi dal voler de-umanizzare l’essere umano, sembra leggibile – quantomeno oggi – come una sorta di enciclopedia di figure: quindi, uno spazio e un discorso dove tutto è sullo stesso piano.

Ora, cosa vuol dire questo? Ipotizziamo due tesi, forse consequenziali tra loro: l’intenzione di offrire a tutti un grado zero per la propria osservazione, qualcosa che si può magari chiamare «essenza» o «minimo comun denominatore» oppure in mille altri modi; la suggestione di pensare queste figure come, tipo, segni di un potenziale linguaggio, attraverso il quale a parlare sarebbero quindi il montaggio di elementi e l’effetto d’insieme.

Da qui, allora, l’attenzione può iniziare a dialogare con l’immaginazione.

Aguzzare la vista

Ritorno allora a seguire i tre. Due di loro sembrano particolarmente coinvolti, nel discorso ci sono considerazioni generali sulle immagini di Muybridge. Alessandro: «A me questo modo di fare fotografia ricorda… sai quella tecnica che viene utilizzata per creare i cartoni animati?» E Chiara: «Ah! Sì… quando muovi col dito e…» Di nuovo Alessandro: «Esatto, quando sfogli velocemente gli angoli di una pagina e le immagini in successione danno l’impressione di una animazione… oppure sai cosa? Prendi la serie fotografica sull’elefante. Sembra immobile, però in realtà si notano le differenze…» Chiara allora precisa: «La percezione è deviata dal fatto che sia un animale lento per definizione, quindi lo sai già che se si muovesse sarebbe un movimento lentissimo. Vedi bene il movimento solo nelle zampe perché tutto il resto degli elementi rimangono invariati: la proboscite, la testa…»

«Sembra più aguzzate la vista della Settimana Enigmistica!» Stigmatizza alla fine Alessandro.

E va da sé, i tre scoppiano subito a ridere (io mi trattengo a stento), ma l’osservazione è perfetta.

A questo punto però anche Chiara vuol dire la sua: «Sai cos’è? Non so se sia colpa dell’iconografia classica, non so perché… però mi era venuta in mente, con queste immagini, con gli uomini così, piuttosto delle statue, delle sculture… anche se percepisco il movimento però sono immagini che nella mia mente mi riportano a qualcosa di molto più statico perché mi fanno pensare a sculture, perfezione dei corpi. Tutte queste pose in fondo un po’ plastiche…»

Ora, hanno entrambi ragione, senza dubbio. Le osservazioni di Alessandro – possiamo dirlo – introducono quella che a partire dall’incontro col suo mecenate Leland Stanford sarà il tratto più caratterizzante della fotografia di Muybridge: la sua strutturazione in sequenze cronofotografiche, cioè la descrizione visiva di un corpo-in-azione attraverso una serie di immagini. Certo poi, il riferimento alla Settimana Enigmistica dice anche qualcosa di più, toccando il tema della variazione tra le immagini, ma la cronofotografia – qui – rimane sicuramente tema centrale.

Quanto detto invece da Chiara è sorprendente e sposta un po’ più in là il discorso: da una parte, presenta un’analogia non molto in voga quando si parla della fotografia del nostro, almeno per quel che ne ha letto il sottoscritto; dall’altra, svela la possibilità di una doppia lettura «teorica» di queste immagini, dove immobilità e movimento non si negano ma co-esistono. Azzardando, può essere qualcosa di sintetizzabile in due coppie di termini, così: figura-immobilità e variazione grafica-movimento.

Ma a questo punto, a proposito della fotografia di Muybridge, viene in mente il cinema, per esempio uno splendido cortometraggio francese il cui autore è Jean-Louis Gonnet, Filming Muybridge (1981) – visto recentemente all’ultima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, nel programma di Federico Rossin (se potete, recuperate il film) – e soprattutto il fatto che il cinema, alla fine, non sia stato tra i primi riferimenti del nostro trio.

Qualcosa che mette la curiosità necessaria per intervenire in prima persona nel discorso.

C’è movimento e movimento

«Ma non vi viene in mente il cinema guardando queste foto?» Esordisco (un po’ a gamba tesa), rivolto ai tre. Sorpresi ma non troppo della mia presenza – mi avevano visto – annuiscono. «Certo! Hai ragione, si vede che è stato un precursore dei tempi… era già nato il cinematografo all’epoca, giusto no?» Mi chiede Alessandro. «Sì, pochi anni prima della sua morte…» faccio io. Li vedo incuriositi, quindi continuo: «Pensa che inventò pure uno strumento che in un certo senso è un precursore del cinema, perché permetteva la visione di immagini in movimento a più persone contemporaneamente» (si tratta del zoopraxiscopio). «Secondo me il valore aggiunto delle opere di Muybridge è allora proprio dato dalla successione…» – fa Alessandro, con aria convinta, forse supportato da quanto ho appena detto, o forse no – «… perché una foto presa singolarmente non darebbe la stessa sensazione che c’è appunto nel fatto di vedere una foto dopo l’altra. Voglio dire, lui ha sognato il movimento». «Già, il movimento…» fa invece Stefano, che si era allontanato un poco mentre parlavamo. Lo troviamo soffermarsi su una serie fotografica che sembra interessargli molto. Ci avviciniamo. Protagonista: un cacatua. «Ua! Guardate qua. Secondo me è una delle più belle… perché l’uccello rispetto agli altri animali è un animale con movimenti molto più rapidi…» Chiara allora si mette a scrutare le foto. «Questa qua sembra davvero strappata da un libro di ornitologia!» dice. «Davvero? Quindi è irreale». Faccio (provoco) io. Allora lei si gira verso di me. Ha un attimo di esitazione, ma credo sia semplicemente dovuto al fatto che stia per dirmi qualcosa di particolare. È così. «Nel senso che sembra – non so come dire – una spiegazione fotografica di qualcosa che è già stato anticipato.» Ha ancora un minimo di esitazione, poi prosegue. «Sai cos’è? Comunque, rispetto agli animali, quello umano – non so perché – è un movimento diverso… magari è colpa di qualcosa di artistico. Le immagini dell’uccello che stiamo vedendo, lui le ha immortalate nel momento in cui l’ala era a mezza via, e quindi si percepisce ancora di più il movimento. Se no altrimenti sarebbe caduto a terra, stecchito. Quindi è ovvio che stesse volando. Invece in questo caso potrei comunque pensare che quelle persone…» – mentre parla vola con lo sguardo verso un po’ di fotografie di Muybridge dedicate agli esseri umani – «… che quelle persone, ecco: si siano fermate per ogni scatto. Mentre questo non è possibile per l’uccello. È proprio strano perché per me la percezione è diversa a seconda del soggetto.» Che dire, rimango spiazzato. Provo a rispondere, ma nel tempo in cui articolo una specie di risposta sopraggiunge Stefano. «Alla fine sì, il movimento umano è più brutto!»

«Uaaa!» facciamo tutti in coro, per poi scoppiare a ridere.

Piaccia o meno, è proprio così. Tra sogno e relatività, con la fotografia Muybridge il mistero del movimento si è fatto immagine.

LO STUDIO FOTOGRAFICO SECONDO MUYBRIDGE

Tra i motivi di interesse di Muybridge Recall c’è, anche, la «ricostruzione» dello studio fotografico secondo il grande fotografo inglese.

Ne parliamo con Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra, i due curatori e commissari delle esposizioni delle Gallerie del Credito Valtellinese: «L’idea è realizzare una mostra non esclusivamente statica, dato il fatto che Muybridge è diventato famoso anche per il suo set fotografico, costituito da queste ventiquattro fotocamere analogiche che scattavano in sequenza al passare dell’atleta o in generale del soggetto. Allora noi abbiamo deciso di ricostruire un fondale di venti metri, completamente nero, che verrà poi riquadrato a mano col gessetto, alla maniera del suo fondale millimetrato. Su questo fondale ci sarà un posizionamento di otto fotocamere digitali, una scelta voluta per fare una operazione non in chiave nostalgica ma in chiave contemporanea.»

A questo punto la domanda su come funzionerebbe la registrazione delle immagini è d’obbligo. «C’erano due alternative. Quella di avere il raggio laser per far scattare la macchina fotografica al passare del soggetto oppure l’azionamento manuale. Noi abbiamo scelto la seconda. Quindi, se si vuole, la ricostruzione si può leggere come un mix tra l’intervento dell’uomo e gli automatismi legati alle nuove tecnologie.» I due proseguono: «Queste otto fotocamere – la Canon ci ha fornito tutta la strumentazione tecnica – verranno posizionate lungo il fondale e saranno azionate da otto operatori che dovranno sincronizzare lo scatto al passare dell’attore.»

Chiediamo allora più informazioni specifiche al riguardo.

«Gli attori passeranno davanti alle fotocamere e verranno ripresi in sequenza. Saranno quattro studenti con tipologie somatiche e caratteristiche fisiche diverse e provenienti dalla NABA, la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, Università con il cui Dipartimento di Arti Visive abbiamo sviluppato questo momento della ricostruzione, mentre l’idea del set rimane specificatamente nostra. In sintesi, diciamo che noi con questa operazione vorremmo dare un rilievo alla ossessione per la registrazione e catalogazione delle azioni quotidiane che c’è attraverso tutti gli strumenti che conosciamo: cellulari, iPad eccetera». Il loro discorso porta ora altre domande: ci sarà una destinazione delle immagini del passaggio dei quattro attori? «Queste immagini verranno stampate nell’arco di quattro giorni e diventeranno parte integrante della mostra, dal momento che in Galleria si fronteggieranno due serie di immagini: da una parte quelle di Muybridge, in bianco e nero, mentre dalla parte opposta queste altre, a colori. Senza possibilità di fraintendimenti, dal momento che per diversità cromatica, soggetti e tipologie di azione le due serie saranno logicamente distinguibili. E inoltre: queste immagini diventeranno parte integrante anche del catalogo, dal momento che il catalogo è già impaginato ma abbiamo lasciato uno spazio in cui verranno appunto inseriti questi scatti, queste sequenze.»

I due infine ci precisano: «La cosa importante è far capire al pubblico che si potrà vedere questa performance solo il 18 maggio sera, tra le h. 19.00 e le h. 20.00. Rimarrà ovviamente il fondale per ospitare gli scatti.»