Musicarello alla turca
Fenomeni/Alla scoperta di un genere molto in voga nel paese tra gli anni sessanta e ottanta Prodotti lievi, folli, a basso budget, stracolmi di idee effervescenti che meritano di non essere lasciati all’oblio
Fenomeni/Alla scoperta di un genere molto in voga nel paese tra gli anni sessanta e ottanta Prodotti lievi, folli, a basso budget, stracolmi di idee effervescenti che meritano di non essere lasciati all’oblio
La Turchia è entrata nel nostro immaginario di spettatori in questi ultimi anni, soprattutto per una vera invasione di soap opera, quelle che in patria sono chiamate dizi, ossia televizyon dizileri, serie televisive. Come le classiche telenovelas messicane d’inizio anni Ottanta con Veronica Castro, così anche questi nuovi fotoromanzi live di amori disperati e sfortune varie, vantano un pubblico vastissimo di appassionati. Quindi se Can Yaman, divo turco di origini albanesi, è diventato, per certi versi una rockstar televisiva per il pubblico di Pomeriggio 5, esistono altri nomi, meno sdoganati, ma che hanno veri fan club in Italia, come la fulgida Sila Türkoglu o il bel tenebroso Halil Ibrahim Ceyhan, protagonisti di Emanet (Eredità), serie tv di ben 165 episodi in poco più di un anno, inedita in Italia, ma fruita attraverso sottotitoli amatoriali.
Il cinema turco, nella sua misura popolare, quella dei cloni di Star Wars o Rambo in chiave terzomondista, è praticamente sconosciuto da noi. Persino il cultissimo 3 Dev Adam, che vanta un cattivissimo Spiderman in lotta contro Capitan America e il lottatore messicano El Santo, è un eterno inedito, ambito e sognato dai fan del cinema più bello, oscuro e miserabile. Esiste poi un mondo, almeno per noi italiani, ancora più ignoto, raramente oggetto di studio, quello dei musicarelli turchi, la variante esotica dei nostri Gianni Morandi di In ginocchio da te o dei Little Tony di Zum Zum Zum-La canzone che mi passa per la testa. Prodotti spensierati, folli sicuramente, poveri ma pieni di ruspanti idee che avrebbero forse meritato una visione o almeno una riscoperta archeologica che li preservasse dall’oblio della dimenticanza. Di questi vi parleremo.
PROTOTIPI
Il prototipo del film musicarello turco, tanta musica e la presenza di hit musicali se non di cantanti come attori, è senza dubbio da ricercare in Meyhanenin Gülü (letteralmente La rosa della locanda), melodramma romantico del 1966 con la diva Türkan Soray all’apice della bellezza e della popolarità. La trama è semplice: un uomo ricco si innamora di una ragazza di periferia e dovrà lottare per essere accettato da una famiglia di diversa estrazione sociale. Il film, diretto da un veterano delle pellicole turche più strappalacrime, Nevzat Pesen, gode di una stupenda fotografia in bianco e nero, e soprattutto di un’interpretazione convincente della sua protagonista, capelli corvini e sguardo profondo, incantevole anche quando si lancia a cantare e ballare. Anticipato dai titoli di testa che presentano, senza molta logica col resto del film, il personaggio di Paperino alle prese con una serie di disgrazie e avventure, il film vive soprattutto dei suoi momenti musicali nei quali Türkan Soray primeggia. Nevzat Pesen gira, produce e persino firma le musiche, tutte orientaleggianti anche quando la scena presenta elementi da pianobar jazz. È un successo in patria, le pagine dei giornali dedicano la copertina a lei, Türkan Soray, e ai suoi diversi look nella pellicola, da morigerata cameriera a prorompente vamp in abiti alla Rita Hayworth, l’atomica Gilda.
È però un uomo, Zeki Müren, ad essere il simbolo di un cinema, quello turco più armonico e disimpegnato. L’artista, ricordato anche come San’at Günesi (Sole dell’Arte), Batmayan Günesş (Sole che non tramonta), Pasa e Günesin oolu (Figlio del sole), era un artista eclettico, un cantante, compositore, attore e poeta. Celebre per la sua voce potente e la precisa articolazione delle parole, Müren è tutt’ora considerato una delle voci più grandi della musica turca. La sua filmografia conta 25 film, tra il 1955 e il 1973, in molti dei quali interpreta se stesso in semplici intrighi amorosi. Pellicole come Asktan da üstün (1970) di Atif Yilmaz o Ruya gibi (1971) di Lutfi Akad sono intercambiabili: non eccelse a livello di regia, scritte senza fantasia su un canovaccio che viveva sulle spalle di Zeki Müren e delle sue melodie, sono il tripudio di un (non) cinema popolare, effimero e basato sul nulla, l’antesignano del videoclip. Film simbolo dell’artista però è Bahcevan, diretto nel 1963 da Nejat Saydam, autore di una sorta di Frankenstein Junior turco, il bizzarro Sevimli Frankenstayn. La pellicola, girata nei distretti di Valikonagi Caddesi, Cihangir Maçka, Nisantasi e Levent, era progettata per essere girata interamente a colori, una novità per una cinematografia molto povera e versata soprattutto sul bianco e nero. Questo sarebbe dovuto avvenire per un accordo tra la Siemens, che primeggiava il mercato con telecamere all’avanguardia, e il noto cantante, ma, a causa del budget limitato, si optò per una via di mezzo: solo 12 minuti di girato che però erano pura avanguardia per il cinema turco, una sorta di Mago di Oz al contrario, nel quale le tonalità monocromatiche prevalevano, ma con colori chiassosi, lussureggianti, acidi e assolutamente pop, un tripudio visivo incredibile e inaspettato. Zeki Müren interpreta un giardiniere canterino in una Istanbul di villette a schiera e belle ragazze pronte ad innamorarsi di lui, orfano e senza soldi, ma dalla voce soave. La canzone Bahcevan, divenuta subito una hit, recitava: «Chi compra le mele lo sa bene, oy oy/E chi vende pesche lo sa bene, oy oy/ Quelli che dormono da soli lo faranno, oy oy/ Apprezzare il valore di una bella ragazza oy oy/ Il giardiniere è arrivato/ Il giardiniere è arrivato».
UNA STATUA
Zeki Müren, malato da tempo di diabete, morì a 65 anni per un attacco cardiaco nel 1996. A lui è dedicata una statua davanti al museo che un tempo era la sua casa: artista eccentrico, famoso anche per l’ambiguità sessuale che usava nel vestirsi in una sempre rigida Turchia, è uno degli artisti più amati e ricordati, simbolo di una libertà poetica che questo cinema ha cercato però d’imbrigliare in stereotipi machisti.
Un’industria comunque in piena espansione, capace di staccare nelle sale locali molti biglietti, che creò coproduzioni con altri paesi come l’Italia per una serie di (brutti) polizieschi e che ingaggiò per i propri musical anche cantanti stranieri come il caso della magnifica Aliki Vougiouklaki che, in pieno successo artistico, recitò, nel 1963, in Chtipokardia sto thranio. Il film fu girato in due versioni, greca e turca, con una troupe diversa, e ribattezzato anche come Siralardaki heyecanla. Un successo annunciato che, in questo caso, si trasformò in un flop commerciale devastante.
Impossibile non citare poi un’attrice e cantante di grande culto anche a livello internazionale, Sezen Aksu, la pioniera del pop turco, soprannominata anche la Mina della Turchia. «L’amore è sempre stato il mio campo di battaglia – raccontava all’epoca ai giornali -. E con esso credo di aver incontrato i destini di moltissima gente. È l’amore, d’altronde, a dare il senso più puro alla natura umana, ai sentimenti più intimi delle persone, alla lotta contro ogni tipo di discriminazione razziale e ogni forma di razzismo». L’artista arriverà a vendere quaranta milioni di dischi in tutto il mondo, divenendo fra le figure più leggendarie della storia musicale moderna facente capo a Istanbul insieme alla rivale Ajda Pekkan, detta non a caso Superstar.
IL PASSEROTTO
Sezen Aksu interpreterà soprattutto lo struggente Minik serçe, nel 1978, diretto da Atif Yilmaz, finta autobiografia dell’artista basata sul cult hollywoodiano A Star Is Born che, proprio due anni prima, aveva avuto un rifacimento con Barbra Streisand e Kris Kristofferson. La cantante è magnifica e intensa per un ruolo che non le chiede altro che essere se stessa. Minik serçe (Passerotto, come era nota anche Edith Piaf) diventa un veicolo non solo per la voce della Aksu ma una sorta di best of dei suoi successi, non dissimile dai crepuscolari film che segnavano la fine, anche in Italia, di un genere sepolto a fine anni Sessanta. È grazie a questa diva però, alla contrapposizione sottile e invisibile tra realtà e finzione della sua vita, che l’opera acquista uno spessore lirico imprevisto, forse unico nel genere, con momenti di commozione genuina, da melodramma matarazziano.
Un genere quello del musicarello che continuerà anche negli anni Ottanta, ma senza più il successo che gli anni Sessanta, soprattutto, gli avevano garantito. È però in queste storie d’amore strappalacrime che i semi dei dizi, che oggi infiammano il cuore di mezzo mondo, risiedono. Solo che al posto di Cam Yaman trovavi Zeki Müre
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