La Valle della luna è uno di quei posti che non smentiscono l’insegna. Un luogo unico al mondo che ha il pregio innanzitutto di essere ancora «nascosto» , richiedere almeno una mezz’ora di trekking a chi lo vuole raggiungere e per il resto lasciarsi abitare solo da una sparuta truppa di freaks e neo-hippie che ne abitano le grotte puntellate sulle pareti rocciose. Immersa in una fitta macchia mediterranea che ogni tanto si allarga in piccole valli dominate da giganteschi graniti, alla fine del sentiero si dispiega in una gigantesca conca che dà sul mare e che appunto, richiama il paesaggio lunare.

È in questo catino così prezioso che il festival Musica sulle bocche ha calato il suo primo asso musicale. In occasione della giornata d’apertura del festival, da quattro anni a questa parte, la minuscola spiaggetta della valle viene adibita a palcoscenico e tutto intorno si assiepa il folto plotone (quest’anno erano forse duemila) di astanti/visitatori. Il set in programma aggiungeva orpelli strumentali fascinosi (arrivati via mare) al colpo d’occhio paesaggistico di per sé già allibente. Di scena il vibrafonista Pasquale Mirra e il polistrumentista senegalese Dudù Kouaté, abituati a dialogare tra loro in molti contesti, ma convocati per la prima volta in un semplice duo. Un ménage ben riuscito, pieno di empatia, disciplinato dal fertile twang solistico di Mirra e cadenzato dal continuo nomadismo strumentale di Kouaté (tamburi ad acqua, ngoni, flauti etnici, rullante, conchiglie, voce).

Sono tante le traiettorie che Musica sulle bocche inaugura nei quattro giorni di festival. Ci sono ad esempio gli omaggi espliciti a grandi compositori che quest’anno hanno avuto luogo nella piccola chiesa di Santa Lucia: Mauro Uselli ha dedicato il suo set per flauto solo al repertorio bachiano, mentre in Mingus World Maria Vicentini e Salvatore Maiore, rispettivamente viola e violoncello, si sono concentrati sul repertorio del grande contrabbassista afroamericano Charles Mingus. Una rivisitazione davvero molto riuscita, un vero e proprio dialogo tra corde, che ha toccato temi immortali come Duke Ellington’s Sound of Love, Fable of Faubus, Goodbye Pork Pye Hat, Oh lord, don’t let them drop that atomic bomb on me, Better get it in your soul ..

Altro filone esplorativo del festival giunto quest’anno alla sua diciottesima edizione è quello della grande tradizione musicale sarda, in particolare quella del canto a Concordu (l’ensemble era appunto quello dei Concordu di Castelsardo), il suo corredo di voci maschili, il suo booklet fatto di trasmissione orale e il suo impressionante amalgama messo prevalentemente al servizio dei canti della settimana santa. Per questa messa in scena sonora, insieme religiosa e laica, non poteva esserci location migliore del Santuario di Buoncammino a pochi chilometri da Santa Teresa.

Qui i Concordu hanno letteralmente diviso a metà il proprio potente intrico di polifonie: una prima parte del set all’interno della chiesa ed una seconda nel cortile prospiciente. Il retaggio etnico sardo struttura e condisce da sempre anche la proposta del jazzista Enzo Favata, direttore artistico di questa rassegna, che si è riservato un concerto speciale inizialmente programmato nel magnifico scenario del faro di Capo Testa, poi spostato in teatro a causa del maestrale furibondo che si è scatenato nel weekend del festival. Sul palco due musicisti da anni al suo fianco, Marcello Peguin e Salvatore Majore, e un guest internazionale, il percussionista Trilok Gurtu..la matrice etnica sia nel caso di Favata che di Gurtu parte dai riferimenti regionali (la Sardegna e Bombay) per allargarsi al mondo. Così é stato anche in questo caso, in un incontro fecondo e sostanzialmente ecumenico.

L’ultima traiettoria festivaliera aveva a che fare con il pianoforte. Quattro proposte, in quattro diversi prosceni, e un alveo stilistico sempre cangiante: le effervescenze neo-bop di Alessandro Lanzoni, il songwriting jazzato di Sergio Cammariere, il melodismo efferato della catalana Clara Peya (salvata dal contesto, ovvero dal concerto all’alba nella splendida spiaggetta di Rena Bianca) e infine lo stratificato, complesso, pianismo del panamense Danilo Perez. Quest’ultimo si è presentato a Santa Teresa con un trio (Ben Street al contrabbasso e Nate Winn alla batteria) che di tanto in tanto si allargava a quartetto con l’innesco della consorte di Perez, l’altoista Patricia Perez.

Nessuna concessione a muscolarità ritmiche cui molti jazzisti latin ci hanno abituato…Perez ha incantato il pubblico con un set costellato di composizioni originali (in primis la Suite For Americas che ha aperto il concerto) e di omaggi (a Wayne Shorter, a Thelonious Monk, alla musica italiana con Estate di Bruno Martino). Perez é un maestro, attivo dall’inizio degli anni ’90, capace oramai di portare qualsiasi spartito a «casa propria» e di creare jazz viscerale anche quando è in gran parte frutto di una scrittura premeditata.