Si avvia al termine il fluviale Festival Aperto, che chiuderà  la quattordicesima edizione il 19 novembre dopo aver presentato trentasei spettacoli, otto  produzioni e coproduzioni e sei prime assolute e italiane: concerti, opere, performance, coreografie, installazioni, spettacoli e multimedia. Perché “occorre ricercare per vedere le lune oltre i dischi; l’apparenza è vera, ma mai abbastanza.” Significativo in questa fase politica che, dopo la festa della cantante maliana Omou Sangaré di due mesi fa, si compia idealmente un percorso nei suoni di altre culture con un concerto che dire prodigioso non è iperbole. Diciassette musicisti provenienti da Iraq, Palestina, Usa, Italia, Taiwan, India, Norvegia: Amir El Saffar’s Rivers Of Sound Orchestra. Il leader, classe 1977, nato da madre americana e padre iracheno, suona la tromba e il santur, un cordofono persiano a percussione, antenato del pianoforte. Canta anche, ipnotizzando la platea mentre intona un richiamo struggente dal palco centrale, alle spalle del pubblico e di fronte ai suoi musicisti, insieme ad altri sette che intonano una sorta di madrigale arabo che si perde nella notte dei tempi. Complicato descrivere la meraviglia di un set che colpisce per originalità della proposta, controllo assoluto della materia da parte degli interpreti, pura e semplice bellezza della musica; un felice ibrido tra mondi solo in apparenza lontani: le maglie larghe dell’improvvisazione, gli spigoli dell’avant-jazz, il maqam arabo, modale e microtonale, e  gli arcaici richiami del folklore mediorientale e indiano.

RAPISCE la ricchezza timbrica dell’ensemble, un vero e proprio organismo pulsante con cinque fiati, pianoforte, chitarra elettrica, due archi (tra questi anche una joza, o rebab, il padre del moderno violino), contrabbasso, batteria, percussioni quali il dumbek, lo straordinario mridangam, tipico della musica carnatica indiana, il vibrafono e cordofoni come oud e buzuq. Una vera e propria festa per le orecchie, che si perdono nei sinuosi labirinti di composizioni aperte, circolari, libere e rigorose, veri e propri vasi comunicanti tra folk degli altri mondi e jazz; è fedele al proprio nome  l’orchestra dei fiumi del suono: sfociano in un mare senza confini in cui si incontrano molti popoli e dove approdano bastimenti carichi delle spezie e degli ori più pregiati. La conoscenza dalle nostre parti della cultura musicale irachena è scarsa: benemerita l’opera dell’etichetta americana Sublime Frequencies che anni fa pubblicò la raccolta Choubi Choubi!, mentre ricordiamo lo storico concerto di Franco Battiato a Baghdad del 1992. Anche il live dell’Orchestra è di quelli che resteranno negli annali; una porta dischiusa su mondi di cui spesso sappiamo solo notizie di guerre e sono invece scrigni di suoni che elevano e salvano. Inni di gioia e rivoluzione, dimostrazione di come fare musica in un certo modo sia un gesto poetico, profondamente politico.