«Tutta la musica è musica contemporanea» – recita uno slogan ecumenico e rassicurante di cui si è persa ormai la paternità. Un seme di verità c’è. Ogni volta che un segno grafico, nell’hic et nunc della esecuzione, si trasforma in suono viene inevitabilmente declinato, in effetti, al tempo presente. Dunque anche Guillaume de Machaut e Beethoven, Monteverdi e Sciarrino sono sempre, fatalmente, sebbene talvolta loro malgrado, contemporanei. Al loro come al nostro tempo. Un bel ritrovato concettuale che ci solleva dal compito, sempre fastidioso, di distinguere tra ciò che è «contemporaneo» e ciò che non lo è. Tuttavia, nell’espressione «musica contemporanea», presa a sé stante, si annida comunque un demone. O per lo meno un equivoco serio, un fraintendimento grave. Proviamo a chiederci infatti con quale intenzione, dentro quale perimetro semantico, venga utilizzata, oggi, questa espressione in apparenza innocua.

Per il «mercato», o meglio per quel residuo di mercato che ancora sopravvive intorno alla musica d’arte, indica una sorta di categoria merceologica, una etichetta da mettere su un prodotto. I negozi on line, i siti web specializzati, le librerie digitali offrono, ad esempio, nei loro scaffali virtuali, la musica rinascimentale, l’opera lirica, la musica romantica, i concerti barocchi e talvolta, sul ripiano più alto, la cosiddetta «musica contemporanea». Come se fosse un «genere musicale» affine all’opera, alla sonata o alla sinfonia oppure qualcosa di assimilabile a un’epoca culturale come il barocco o il romanticismo. Ma anche nel recinto della cultura musicale «diffusa», e talvolta anche tra i musicisti, pronunciare il sostantivo musica insieme all’aggettivo contemporanea provoca innumerevoli slittamenti di senso.

Il parlante italiano infila nel sacco un insieme di fenomeni sonori che sente istintivamente simili tra loro e che rispondono a codici apparentemente omogenei: una generica estraneità alle regole del sistema tonale, un mondo sonoro «alieno», una forma non facilmente riconducibile ai modelli della tradizione. In questa generica visione d’insieme l’espressione «musica contemporanea» diventa, dunque, una categoria estetica, addirittura una dimensione linguistica. E non – come dovrebbe essere – la semplice indicazione di un’epoca cronologicamente definita. Questa rozza ghigliottina estetico-merceologica è un privilegio riservato alla musica: mai, infatti, o quasi mai, si è abbattuta sulle arti sorelle. Se si pronuncia, ad esempio, l’espressione «arte contemporanea» si pensa spontaneamente a una corrente estetica, a un artista vivente oppure a un’opera singola: a nessuno viene in mente che i dipinti, le sculture, le installazioni realizzate nell’ultimi settant’anni si possano assomigliare tra di loro. E lo stesso vale per la letteratura contemporanea o per l’architettura contemporanea.

La musica nuova, al contrario, non è mai riuscita, nella seconda metà del Novecento, a conquistarsi il diritto di essere complessa, plurale, molteplice. E si è dunque condannata a essere vista e sentita come un monolite grigio e uniforme. Come salvare allora la musica contemporanea da sé stessa? Come restituirle, almeno, l’opportunità di essere ascoltata, goduta, compresa, respinta per ciò che è, ossia un insieme di diversità, di individualità, di conquiste e di fallimenti, di bellezza e di bruttezza, e non come una categoria statica e senza sviluppo? Solo con uno stratagemma terminologico? Ricorrendo alle espressioni assai più felici che la cultura musicale francese, ad esempio, è capace di offrire? Musique vivante, musique nouvelle o musique d’aujourd’hui. Sì, certo, è un primo passo, ma ovviamente non basta: la vera cesura epistemologica, che forse tutti noi dovremmo operare, consiste nel riconoscere anche alla musica, finalmente, il diritto di essere uno strumento di conoscenza della realtà. E allora sarà davvero contemporanea. Ma solo ed esclusivamente a sé stessa.