L’anno Venti è significativamente prodigo di composizioni musicali, andando indietro nel tempo di secolo in secolo. Ma già solo iniziando con i cinquant’anni appena trascorsi si può scoprire che Karlheinz Stockhausen compone Mantra per due pianoforti e Luigi Nono Y entonces comprendió per nastro, tre soprani, tre voci femminili e cori misti, insomma due capolavori della cosiddette sonorità contemporanee (vicino alle quali si collocano pure l’elettronica con Acustica di Mauricio Kagel e Black Angels di George Crumb e in parte il concerto Tout un monde lontain di Henri Dutilleux). Andando indietro al 1920 basta citare il Pulicnella e la Sinfonia per strumenti a fiato di Igor’ Stravinskij per connotare addirittura un intero decennio, i cui inizi vantano altresì eccezionali partiture di Ravel, Milhaud, De Falla, Turina, Korngold. Nel 1820 Ludwig Van Beethoven firma la Sonata per pianoforte in mi maggiore op. 109, mentre Frédéric Chopin inizia a comporre le celebri Mazurke proseguendo fino al 1847. Nel 1720 Johann Sebastian Bach nella minuscola Köthen propone via via alcune suite per orchestra, ma soprattutto le suite per violoncello solo, nonché sonate e partite per violino, pensando magari già ai Branderburghesi che inizierà a creare solo l’anno successivo; dalla già multietnica Londra il coetaneo George Frideric Händel risponde con la magnifica Suite per clavicembalo. E si potrebbe risalire ancora più in giù, nonostante la penuria di date certe, eccezion fatta per i ventiquattro Mottetti di Guillaume Dufay cominciati proprio nel 1420 e conclusi attorno al 1447, avviando ciò che gli storici chiameranno Rinascimento musicale.
Basterebbero queste poche citazioni a intraprendere un serio lavoro di omaggio e tributo alla storia della musica che, in tempi di Coronavirus, si spezzetta nell’assiduità dei tanti Inno di Mameli o Va’ pensiero interpretati sui balconi o in streaming. Il tempo della quarantena avrebbe anche potuto essere impiegato per avvicinarsi in massa ai piaceri di una musica millenaria, alla quale un compositore eccelso, Nicola Campogrande, dalle collaborazioni variegate, sta dedicando negli ultimi anni un lavoro di ottima divulgazione a suon di libri.
Come molti altri testi di musicisti e musicologi aventi più o meno lo stesso obiettivo – da Il linguaggio dello spirito. Breve storia della musica classica di Jan Swafford ad Assolutamente musica, dialogo tutto giapponese fra il romanziere jazzofilo Haruki Murakami e il direttore d’orchestra Seiji Ozawa, fino al monumentale Novecento in musica. Protagonisti, correnti, opere di Fiamma Nicolodi -, sono però Occhio alle orecchie. Come ascoltare musica classica e vivere felici e 100 brani di musica classica da ascoltare una volta nella vita, i due libri più recenti di Campogrande, ad avvicinare realmente, nello stile, nella forma, nell’approccio, il grosso pubblico alla classica, in una situazione dove «gli italiani che ascoltano musica classica dal vivo – è l’autore a parlare – rappresentano meno del 10% della popolazione. E, a guardare le serie storiche dei dati Siae, il numero negli ultimi decenni è grosso modo costante. Il fatto nuovo è che oggi si ha voglia di capire, di approfondire, di penetrare nel cuore dell’esperienza musicale in modo non solo sensoriale. E allora forse un buon libro che ti prende per mano e condivide con te informazioni, segreti, storie, è più necessario di quanto lo fosse un tempo».

METODI
La prospettiva metodologica di Campogrande è per così dire quella di accarezzare il fruitore (ascoltatore/lettore) sdoganando quello che, in letteratura, Roland Barthes, già negli anni Settanta chiama «il piacere del testo», insomma un approccio seduttivo, passionale, decisivo anche per la musica classica: «Non sono uno storico della musica né un musicologo. Sono un compositore, e da decenni, quando non ho la matita in mano, ascolto musica in modo professionale, oltre che passionale; così poi provo a raccontare le cose che scopro, che mi piacciono, che rendono più intensa la pratica dell’ascolto. E poiché l’ho fatto a lungo su Radio3, e ora mi ci dedico in tv, su Classica HD, mi viene spontaneo rivolgermi a un pubblico che desidera essere coinvolto, attratto, forse anche sedotto».
Cinquant’anni fa parlare di musica e felicità avrebbe fatto storcere il naso a buona parte della critica che interpretava musica e musicista in termini di impegno morale, civile, politico, mentre oggi sembra finita un’epoca o forse sono le persone a essere cambiate: «Nella sua classe di composizione – prosegue Campogrande – al Conservatorio di Milano, il mio amatissimo maestro, Azio Corghi, ci ha sempre detto che all’estetica preferiva l’etica. Usava così. E si scriveva musica orrenda, con intenzioni morali altissime ma risultati deprimenti. Tanto che poi, giustamente, gli interpreti fuggivano, e fuggiva anche il pubblico. Oggi – credo che anche Corghi sia d’accordo con me – siamo tornati a pensare che l’etica di un musicista consista nella propria missione estetica, nel pensare, scrivere, eseguire musica bella, forte, intensa, capace di scuotere chi la ascolta non perché il programma di sala spiega che è stata composta in omaggio alle vittime di questa o quella strage, ma perché l’artista che la sta offrendo ha usato il proprio talento, la propria maestria, per trasformare un’idea, un sentimento, in un momento di musica».
In effetti nel libro sui cento brani viene prediletta una linea tonale che esclude le avanguardie oltranziste e gli estremismi sperimentali novecenteschi, in accordo del resto con tantissime correnti musicali che (come anche accade per il jazz e il rock) abbandonano o smentiscono la ricerca, con una sorta di ritorno all’ordine o al passato (ammesso che sia tale) da alcuni studiosi, come Renzo Cresti, già letto quale segno di crisi, nonostante il disaccordo di Campogrande: «A dire il vero, io non penso che si tratti di un ritorno al passato. Osservo, e pratico, il presente, dove scorre un’energia musicale nuova che fa ciò che si è sempre fatto nella storia: studia il passato per disegnare il futuro. Gli estremismi sperimentali del Novecento rifiutavano il confronto con il passato, e non volevano avere nulla da spartire con ciò che era stato. A pensarci freddamente, è una cosa alquanto bizzarra, no? Oggi, vivaddio, non si ha più paura di stare accanto a Mozart, a Beethoven o a Debussy, e il mondo è pieno di fantastici compositori che entusiasmano orchestre e ascoltatori con un linguaggio nuovo, ricco, francamente molto più interessante di quello delle ex avanguardie».

INTERPRETAZIONI
Lungi dall’essere passatista, nel testo sulle orecchie, Campogrande medesimo, nel ragionare di interpretazione, azzarda una trovata radicale come l’uso del basso elettrico da abbinare a un brano classico, in un momento dove circolano fin troppi mescolamenti sbagliati: «L’ipotesi di aggiungere un basso elettrico a un’orchestra secondo me non è troppo peregrina: le nostre orecchie sono ormai abituate a bassi profondi, e spesso in sala da concerto si ha un senso di frustrazione acustica in quelle frequenze. D’altronde nella mia musica sinfonica uso spesso un basso elettrico, in una fila di contrabbassi; e fa la differenza. Ma hai ragione: in assoluto siamo soffocati da ibridazioni e meticciati pessimi, e se ci si lancia in un gioco come questo bisogna avere una consapevolezza storica e artistica di prim’ordine. Cosa che spesso manca».
Campogrande si lancia poi in una crociata contro la musica fastidiosa (spesso ad alto volume) nei ristoranti, potenzialmente luoghi, come le scuole o le palestre, da cui far partire una seria educazione musicale, anche solo iniziando a proporre, mentre si pranza o si cena, ad esempio Haendel o Telemann, non a caso, compositore di musiche per lauti banchetti che venivano veramente eseguite mentre nobili o borghesi gozzovigliavano. Da qui una certa ritrosia di Campogrande: «Mah. Una cosa è abituarsi al suono della musica classica, alla sua esperienza acustica; un’altra ascoltare, farlo come attività principale, totalizzante, unica. Certo, Haendel o Telemann scrivevano per un ascolto distratto; ma il rischio è che, se proponiamo musica da ascoltare ‘mentre’, finiamo con l’attribuire alla musica classica uno statuto ancillare, da colonna sonora delle nostre attività. E rischiamo un autogol».
La musica classica e la musica tout court, avendo tirato in ballo la scuola, risultano le grande assenti della Riforma Gentile su cui ancor oggi di fatto, nei contenuti, poggia l’identità dell’istruzione secondaria superiore (licei e istituti). Molti in tal senso si chiedono se non sia auspicabile introdurre un’unica materia – definibile Storia della Cultura – in cui, come fece lo studioso ungherese Arnold Hauser nel suo libro più famoso, Storia sociale dell’arte (1951) si raccontano le grandi estetiche dell’umanità secolo per secolo, senza nette distinzioni tra diverse discipline espressive. In tal senso ad esempio l’Ottocento italiano sotto il profilo artistico (e «pop») è il secolo di Giuseppe Verdi e del melodramma forse assai più che che Leopardi o Manzoni o men che meno Hayez e Fattori: «Forse funzionerebbe, sì – asserisce Campogrande – soprattutto se la accompagnassimo con esperienze che possano sviluppare una sensibilità. A scuola ci insegnano come osservare un quadro, come smontare una poesia, ma non come ascoltare una sinfonia o un’opera, quali corde possiamo mettere in vibrazione, dove è utile indirizzare la nostra attenzione; ed ecco che torniamo al senso dei miei libri. Anche perché cittadini sensibili sono cittadini migliori. E vivremmo tutti meglio».
Del resto, in un nazione come l’Italia, cronicamente portata a scoprire o riscoprire di tutto, da qualche anno esistono libri anche di successo per introdurre i lettori a un tema nuovo, pensando agli esempi di numerosi festival votati alle recenti mode della matematica, della fisica, dell’astronomia, della filosofia «spiegate al popolo» anche da eccellenti cattedratici e ottimi divulgatori; ma è dimostrato che, senza un adeguato retroterra culturale, si arriva a un punto nella matematica, nella fisica ecc., in cui è difficile compiere il salto di qualità se non mettendosi a studiare duramente. E sembrerebbe un problema analogo alla musica stessa, benché Campogrande sia in parziale disaccordo: «Si può essere ascoltatori eccezionali, attenti, sensibili, capaci di entrare in profonda empatia con un brano o con un interprete senza saper leggere una nota e magari senza avere idea del secolo nel quale sono vissuti Schumann o Berlioz. La musica, in questo, ha senz’altro una marcia in più».

FUORI I TITOLI
Sono appunto cento i brani che Nicola Campogrande suggerisce per farsi una cultura classica in ambito musicale, iniziando dalla Messe de Notre Dame di Guillaume de Machaut (1300-1377) probabilmente concepita per l’incoronazione a re di Francia di Carlo V nella Cattedrale di Reims il 18 maggio 1364, e terminando con il Canticum calamitatis maritimae che il finlandese Jaakko Mäntyjärvi (57 anni il 27 maggio scorso) compone nel 1997 a commemorare le 852 vittime del naufragio della nave Estonia, avvenuto nel 1994. In mezzo a queste due opere, poco note al pubblico italiano, Campogrande ne illustra molte altre famosissime dalle Quattro stagioni di Vivaldi al terzo Branderburghese di Bach, dalla sinfonia Jupiter di Mozart a quella Eroica di Beethoven dai Notturni di Chopin alla Patetica’di Ciakovskij, dal Bolero di Ravel alla Rapsodia in blu di Gershwin, per restare vicini all’anno 1920. L’elenco è in ordine cronologico seguendo le biografie degli autori, ma altri studiosi si comportano diversamente: ad esempio da un lato nel monumentale 1001 dischi di musica classica (edizioni Atlante) curato dall’inglese Matthew Rye la sequenza rispetta invece la datazione delle composizioni; dall’altro i due recenti volumi Applaudire con i piedi 1. Segreti e curiosità della musica colta e Applaudire con i piedi 2. Il difficile e meraviglioso mestiere della musica (entrambi Graphofeel) della violista Anna Rollando spaziano a zig zag, cercando di sedurre il lettore dapprima con le analisi dei brani più facili e popolari e solo in seguito affrontando le partiture complesse e impegnative.
Un’alternativa a tutte queste soluzioni potrebbe essere una serie di carotaggi per osservare e ascoltare la musica classica anche in una prospettiva sincronica. In tal senso e in riferimento agli anniversari di cui sopra, cosa accade realmente nell’anno 1920, un secolo fa? Le proposte sono ghiotte a cominciare dai brani pianistici Fabric e The Voice of Lir del compositore americano Henry Cowell, in cui sperimenta, per primo, la tecnica dei cluster, ripresa poi dalle successive avanguardie (free jazz compreso). A Madrid, senza dimenticare il Joaquin Turina di Danzas fantásticas, c’è Manuel De Falla a completare la revisione della partitura El amor brujo, capolavoro dell’impressionismo musicale, mentre in parallelo scrive L’homenaje, sottotitolo Piece de guitarre ècrit pour le tombeau de Debussy, prontamente eseguito da Andrés Segovia, e definibile quale inizio della letteratura chitarristica moderna. In Austria viene dato alle stampe dalla Universal Edition lo spartito per pianoforte e voce dell’Histoire du soldat di Igor’ Stravinskij, in un anno particolarmente fecondo per l’espressionista russo, ormai da un decennio «esule» a Parigi: nella capitale francese infatti firma, nel 1920, una Sinfonia per strumenti a fiato e completa in aprile il balletto Pulcinella che viene rappresentato il 15 maggio successivo con l’orchestra dell’Opéra sotto la direzione di Ernest Ansermet, mentre sarà poi l’editore londinese J. & W. Chester, a fine anno, a favorirne la pubblicazione della partitura.
Londra del resto, per la nuova musica classica, non è scevra da fondamentali iniziative, nel corso dello stesso 1920: esattamente il 29 settembre sono moltissimi ad applaudire la première del monumentale poema sinfonico I Pianeti di Gustav Holst, quasi un antesignano della science fiction music, sia pur in una struttura tradizionale che consente il debutto nella compassata Queen’s Hall con la London Symphony Orchestra diretta da Adrian Boult. Ma se si parla di anteprime, è ancora la Ville Lumière a ospitare La valse di Maurice Ravel e soprattutto quello che potrebbe definirsi l’evento culturale dell’anno: al Théâtre des Champs-Élysées, il 21 febbraio, va in scena Le boeuf sur le toit, pietra miliare del balletto surrealista con le musiche di Darius Milhaud del Groupe de Six, il soggetto del poeta Jean Cocteau, le scenografie del pittore Raoul Dufy, i costumi dello sfortunato decoratore Guy-Pierre Fauconnet (morto 15 giorni prima dello spettacolo) e soprattutto le danze della Compagnie des Ballets Russes del massimo coreografo Sergej Diagilev.
Tra l’altro, al di là della Manica, a Chelmsford, due giorni dopo, iniziano le prime trasmissioni radio nei laboratori di Guglielmo Marconi, un mass medium destinato nei primissimi tempi a lanciare soprattutto la musica classica via etere, prima che gli statunitensi comprendano invece l’importanza di occupare palinsesti con molto jazz. E forse non è un caso che, alcuni mesi dopo, il 10 agosto, a New York, Ralph Peer produce quello che può definirsi il primo disco jazz afroamericano, Crazy Blues della cantane Mamie Smith, le cui vendite colossali obbligheranno i dirigente della label Okeh a istituire una collana destinata ai soli artisti afroamericani, poi riconosciuta con la famigerata espressione di Race Records. E non si può dimenticare, nel 1920, un’altra capitale della musica del primo Novecento, Vienna, dove il 9 ottobre avviene un concerto primato con l’esordio dei primi due dei Quattro pezzi per pianoforte op. 23 che Arnold Schoenberg scrive nel luglio antecedente usando scrupolosamente il metodo della dodecafonia da egli stesso teorizzato con altrettanto rigore «scientifico», rivoluzionando l’estetica musicale così come, negli stessi anni, vanno facendo, con sorprendenti analogie, i quadri astratti dei movimenti d’avanguardia.
Nella capitale della psicanalisi, della Secessione, dello Jugendstil, del Circolo Filosofico, della «Scuola musicale viennese» inaugurata appunto da Schoenberg, assieme a Webern e Berg, non può infine mancare una nuova opera lirica ed ecco nel 1920 Die Tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold, tra operetta mitteleuropea, trama simbolista, atmosfera espressionisticheggiante, influenze pucciniane. E proprio Giacomo Puccini nel Natale di quell’anno, dalla torre sulla spiaggia della Tagliata a Orbetello, riceve da Giuseppe Adami e Renato Simoni la prima stesura del libretto di Turandot, struggente melodramma che, nelle ultime battute, verrà completato postumo da Franco Alfano e nel 2001 rivisto da Luciano Berio grazie al ritrovamento degli abbozzi originari.
E intanto nella leninista Pietrogrado, che di lì a poco assumerà il nome del padre della rivoluzione bolscevica, lo scienziato e violoncellista Léon Theremin, da un anno a capo del laboratorio dell’Istituto fisico-tecnico, inventa il primo strumento elettronico nella storia della musica che porterà il suo nome e che addirittura eviterà il contatto manuale con il mezzo stesso, basandosi sulle oscillazioni delle mani distanti mezzo metro da un’antenna metallica: cent’anni fa, con Theremin, ma anche grazie a Schoenberg, Stravinskj, Holst, Milhaud, Ravel ecc., il mondo delle sette note cambia volto e la musica non sarà più la stessa.