Sfoderando le sue doti di incassatore, ieri il direttore di Repubblica Maurizio Molinari non ha battuto ciglio dopo che, la sera prima, la sua redazione a larga maggioranza aveva approvato un documento di sfiducia nei suoi confronti.

Gli aventi diritti al voto sulla piattaforma digitale che ne garantisce la segretezza erano 328. Contro il direttore responsabile si è espresso il 64% dei giornalisti (164), a favore il 24% (55), in 35 si sono astenuti. Di conseguenza, è scattato lo sciopero della firma per le successive 24 ore. A scatenare il caso, quella che il comitato di redazione definisce senza mezzi termini «censura» nei confronti del servizio di apertura dell’inserto economico Affari& Finanza dell’8 aprile.

Era un articolo firmato da Giovanni Pons che aveva come oggetto i rapporti economici tra Italia e Francia. Vi si leggeva, tra le altre cose, che «l’Italia e le aziende italiane sono state trattate negli ultimi vent’anni come terre da conquistare con le bandierine francesi» e si menzionava Gianni Agnelli, colui il quale «spianò la strada alla conquista di Edison da parte del colosso francese statale Edf». Il che ha spinto Molinari a mandare al macero una prima tiratura di 100 mila copie cartacee pur di sostituire l’articolo.

«Quanto avvenuto – denuncia ancora il Cdr – è l’ultimo di una serie di errori originati dalle scelte della direzione che hanno messo in cattiva luce il lavoro collettivo di Repubblica». Per limitarsi agli ultimi quindici mesi, in effetti, i motivi di attrito tra direzione e redazione sono stati diversi. A febbraio dello scorso anno, ad esempio, l’assemblea di Repubblica aveva respinto come «irricevibile» la proposta di riorganizzazione del giornale avanzata dal direttore e chiesto che si facesse «più attenzione ai deboli e meno agli interessi dell’editore». Concetto ribadito dopo che sulle pagine di Repubblica è uscito il racconto di Alan Elkann sui «lanzichenecchi» che popolano le carrozze ferroviarie di provincia, bollato senza dall’organismo sindacale come in netta in antitesi alla missione politico-culturale storicamente perseguita dal giornale.

Qualche mese più tardi le proteste erano scattate contro l’invasione degli spazi pubblicitari in quelli redazione. A dicembre 2023, poi, il Cdr aveva lanciato il suo grido di dolore ai giornalisti definendo senza mezzi termini Repubblica «una nave che affonda». Parole che sono diventate anche più pesanti quando si è stata ventilata la vendita del Secolo XIX, storica testata del gruppo. «Un grande gruppo editoriale è stato di fatto smantellato, un pezzo alla volta, e questo stillicidio di voci, illazioni e poi vendite è estenuante e non permette a nessuno di concentrarsi sul proprio futuro – ha scritto il Cdr – Non abbiamo più fiducia nelle parole e nelle rassicurazioni di questo management e di questa azienda, che continua la strada dei tagli e del disimpegno, non avendo a cuore la nostra missione quotidiana, cioè il giornalismo».

Dal 7 ottobre in poi, con l’aggressione terroristica di Hamas e la guerra di Israele contro Gaza, secondo quanto trapela dalla redazione, il controllo del direttore sui notizie e approfondimenti è diventato ancora più asfissiante. Il caso più clamoroso ha coinvolto il trapper Ghali: a febbraio è sparita dalle pagine del giornale un’intervista al cantante, colpevole agli occhi della direzione di non aver voluto rispondere a una domanda su Hamas. In tutto ciò, Repubblica ha condotto una campagna contro il governo a proposito della libertà di informazione. Ieri, esprimendo la sua solidarietà un po’ pelosa al Cdr, il ministro Adolfo Urso ha mostrato quanto la destra si bulla della situazione creatasi a largo Fochetti. Di tutto questo, alla consueta riunione di mezzogiorno, Molinari non ha voluto parlare. E di fronte alle richieste di interlocuzione del Cdr ha fissato un incontro. Per mercoledì prossimo.