Finalmente esce, da Baldini e Castoldi, ‘Nzularchia, il primo testo teatrale di Mimmo Borrelli, già previsto da Franco Quadri nella mitica Ubulibri.Mimmo Borrelli, oltre che uomo di teatro, e ora anche di cinema (è il protagonista de L’equilibrio di Vincenzo Marra, vincitore di un premio alle «Giornate degli Autori» a Venezia) è scrittore autentico. E come tale possiede una visione, una geografia, una concezione del mondo e una lingua che le esprime.
LA LINGUA
La sua è il dialetto flegreo, tipico della zona di Torregaveta che, come per Faulkner la contea di Yoknapatawpha, è l’ombelico del suo mondo. Un dialetto arcaico, musicalissimo, che Borrelli rielabora con innesti contemporanei, deformazioni e invenzioni d’autore: ne nasce un linguaggio mescidato, funzionale al suo violento espressionismo barocco, veicolo di incubi e tenerezze, furori e nostalgie d’amore. Proverbi, filastrocche, litanie, bestemmie ed eufemismi, gerghi professionali, riferimenti sessuali e scatologici, un’intera enciclopedia sociale e antropologica viene impastata nella betoniera linguistica di Borrelli, che a tutto imprime il sigillo del suo talento nel rendere musicalmente e metaforicamente l’opaca matericità del reale.
MONDO VUOTO
Parole e idee, relitti di un naufragio antropologico e storico, vengono trasposte in un contesto totalmente diverso, dove l’elemento arcaico, a contatto con il munnu vacante, il mondo vuoto e diroccato di oggi, si apre a un altro orizzonte semantico. Non più riferiti a un universo a suo modo rassicurante nella vicenda sempre uguale di fatica e dolore, di sopruso e violenza, i termini dialettali si «cosificano», si rifunzionalizzano, moneta di scambio per la circolazione di un senso nuovo, difettivo per cancellazione di storia e insieme abnorme per scarto di realtà. Ma se, come dice Eraclito, «la trama nascosta è più forte di quella visibile», lo scambio sussiste, e il fantasma arcaico riaffiora in superficie.
Del resto, in questi paraggi, quella camorra così oscuramente nemica nel mondo di Borrelli, non coniuga forse anch’essa arcaismo e contemporaneità? Credo che tale compenetrazione di mondi, nel bene e nel male, sia caratteristica peculiare del nostro Meridione, in cui è viva una densità antropologica che letture semplicistiche e unilaterali non riescono a cogliere. L’operazione linguistica di Borrelli, come anche di molto teatro meridionale, nasce in primo luogo da questo amalgama e può contribuire a una comprensione più articolata del fenomeno.
ANTEFATTO
Come nella tragedia classica, la vicenda di ‘Nzularchia si snoda da un remoto antefatto di nefandezze, che inquina uomini e cose. Tale fondo oscuro si incarna in un camorrista che uccide la moglie adultera, e con lei il bimbo di cui è incinta. Vano il tentativo di redimere la ferita originaria: questo mondo non conosce salvezza, anzi il processo di anamnesi porta con sé la cognizione di ulteriori delitti. Gaetano, il figlio superstite, insieme col fratello mai nato, quasi un alter ego briccone, non riuscirà a far scontare al padre assassino il suo delitto. Nel testo, come in altri lavori di Borrelli, manca la tessitura di una trama, sull’ipotassi prevale la paratassi, sulla sintassi il lessico: tutto esplode e si esaurisce in un’alluvione di parole seducenti per la forza ritmica, per la rabbia che veicolano, a volte persino per la dolcezza che evocano, ma che possono solo certificare la pervasività di una piaga insanabile e, sulla scena, la concretezza della materia verbale si fa viva nella fisicità metamorfica del corpo degli attori.
IL DOMINUS
Quella di Borrelli è la visione gnostica di chi pensa che l’esistenza del mondo non sia un bene in sé: Spennacore, il padre camorrista di ‘Nzularchia, è un dio malvagio che tutto domina e distrugge: la sua violenza e il suo sarcasmo, persino la paura di essere ucciso dai rivali nel malaffare, che lo fa vivere recluso per anni in una casa in rovina, tra scarafaggi e topi, sono caratteristici di un Demiurgo malvagio e vile, demonio più che padre, fosse anche capobastone: siamo lontani dal sindaco di Rione Sanità e più vicini al Signore delle tenebre. Spennacore è il dominus di un mondo stravolto: «Je songhe tutto chello ca nun songhe, (…) Je songhe ‘a verità fatt’ ‘i buscie, / …songhe ‘i buscie a cui nisciuno crere recita all’inizio e alla fine della tragedia, richiamo parodistico al Prologo di Giovanni. Le ferite di questo universo sono così profonde da risultare ontologiche e il male così onnipresente che soltanto nella violenza inflitta all’innocente traluce la nostalgia di un impossibile mondo diverso. Ma l’ineluttabilità stessa del male consente a Borrelli di avvolgere in un unico sguardo pietoso i carnefici e le vittime, forse a loro volta futuri carnefici. Proprio perché non c’è scampo al comune destino di dannazione, l’unica relazione praticabile con i dannati è quella della pietas. Che non elude il giudizio, ma sollecita la comprensione. Tale metafisica negativa non esclude un evidente risvolto «politico», non però immediatamente sociologico: la camorra di ‘Nzularchia è sciagura pestifera, nel senso letterale del termine: porta la peste, è riconducibile a ben determinate responsabilità, quindi evitabile o rimediabile; ma in ogni caso sempre partecipe di un destino di ineludibile sopraffazione. «(…) la violenza è nu piatto prelibato ‘i chillu pranzo succulento che è ‘a vita, ognun’ ‘ nuje primma o poi s’adda strafuga’ ‘a parte che lle spetta» è la sardonica costatazione di Gaetano. Gli antieroi di questo microcosmo flegreo, campione dell’intero universo, sono malvagi, e quindi da punire; ma la malvagità è pur sempre il loro fato, e ad essa possono solo titanicamente ribellarsi bestemmiando. Volendo arrischiare direi che Borrelli è un pagano con la nostalgia dell’amore cristiano.