Non so come chiamarla. A me viene Mumbai, perché ci ho vissuto quando ormai tutti la chiamavano Mumbai. Però non mi va neanche di darla vinta a chi l’ha ribattezzata anni fa in senso identitario, col nome della lingua marathi. Bombay l’ha voluta Mumbai lo Shiv Sena, il movimento xenofobo e destroide di Bal Thackeray, il padrino da poco defunto che a Maximum City muoveva ogni cosa: dalla politica all’industria cinematografica di Bollywood. É una città che, nel suo centro, dislocato a sud, risulta spezzata a metà. La barriera è un ponte che collega il centro storico – formato dal consolidamento di alcune isole, saldate da palafitte, terra e poi asfalto e cemento armato – con il resto di una metropoli dove i metri quadri valgono oro e le tende blu degli slum crescono accanto ai grattacieli in costruzione con ponteggi in bambù.

Da un lato, oltre il ponte, si muovono i taxi, dall’altra i risciò-wallah. Due mondi che non si sovrappongono. Anni fa lo Shiv Sena ha provato a togliere la licenza a quei tassisti che non parlavano marathi. Peccato che i ricchi parlino perlopiù hindi o inglese, o magari la lingua del Gujarat: le elite di Mumbai infatti vengono storicamente dal Gujarat o sono parsi iraniani. Parlano marathi i più poveri, che non prendono il taxi, come quei pescatori che in una baia inquinata e nera tirano su con le reti il bombil, la Bombay’s duck, un pesciolino spugnoso che viene fritto nei ristoranti parsi. A proposito: solidarietà ai tassisti di Mumbai, i migliori del subcontinente, giacché non amano contrattare e mettono sempre il meter, il contachilometri, anche se non lo si chiede.

É con una vecchia Fiat scassata che arrivo a Nariman Point. Una passeggiata mentre la skyline dei grattacieli si incendia per il sole del tramonto, poi mi infilo dentro il Tata Theatre: è in scaletta il concerto jazz di Enrico Rava e ho sudato per ottenere un biglietto. Le cose che contano qui non sono in vendita ma bisogna rimediarle o con la corruzione o con i buoni rapporti. Un biglietto per uno spettacolo importante, se si potesse comprare sarebbe alla portata di quasi tutti. Ovvero non sarebbe importante. Se lo ottieni con i rapporti, con i biglietti da visita e i numeri di telefono, allora è davvero un evento. Io ho tentato di bussare alle porte della biglietteria, ingenuamente. Poi ho provato con la Camera di Commercio italiana e infine sono andato al Consolato. Tutto inutile. Alla fine ha risolto il mio datore di lavoro, un imprenditore indiano che mi ha trovato il biglietto con un paio di telefonate. Pensavo a una serata colta, quattro gatti melomani devoti al jazz, e invece mi sono trovato in mezzo a un remake del video di Om Shanti Om, seduto a poche poltrone da Sandokan-Kabir Bedi.

Dopo il concerto sono andato a passeggiare nel quartiere di Colaba. Ho letto Shantaram prima di andare a Mumbai e quando sono tornato sui luoghi del romanzo il Leopold Café mi ha deluso. A dire il vero al Leopold ci sono arrivato seguendo la logistica dell’attentato del novembre 2008. Son partito dal Gateway of India, dove i fotografi propongono agli indiani in luna di miele di farsi ritrarre esibendo improbabili foto di famiglia di anglosassoni biondi; ho superato l’hotel Oberoi e il Taj Mahal e mi sono infilato nel quartiere di Colaba per poi raggiungere il Leopold Café. Dentro c’era una selva di vecchi americani sovrappeso e di mezz’età. Niente coltelli sotto i tavolini. Allora ho mandato a quel paese il menù costoso e ho attraversato la strada per infilarmi in un ristorantino di musulmani che fa un chicken curry meraviglioso e unto e praticamente quasi nient’altro. Poi sono tornato a Bandra col treno dei pendolari.

Bandra è cool e i miei amici hindu mi dicono che è una zona piena di ragazze cristiane. A quel punto annuiscono e muovono la testa: pensano che siano «facili»…e non si parla di ragazze occidentali, come se le sono reinventate nei video hot and spicy; non sono neanche angloindiane, come paradossalmente si definiscono le cattoliche di rito siromalabarese di Goa o del Kerala, con cognomi portoghesi come Pinto o Lobo che di anglofono non han nulla. Sono proprio ragazze della borghesia cristiana di Bandra. A me fan pensare al papa ma ai miei amici evocano scenari più peccaminosi. In ogni caso Bandra per loro è troppo costosa. Forse perché oltre alle ville dei cristiani di Mumbai, in decadenza, in questo quartiere ci sono oggi i tanti locali cool. Cool non significa che ci siano party notturni.

Il Just around the corner è solo un posto ordinario, dove i ragazzi si trovano a studiare col portatile e le ragazze fumano e talvolta si mettono gonne corte. Poi però scopro che quel bar è il meeting point degli aspiranti attori e ballerini dell’industria cinematografica bollywoodiana (e lo scopro grazie a Maximum City di Suketu Metha, tradotto da Einaudi, comprato su una bancarella vicino a Victoria Terminus, stazione e cattedrale neogotica dell’esodo indiano che stampa 2 milioni di biglietti ferroviari al giorno).

Una città al massimo, con 18 milioni di abitanti, non entra in un tablet e tanto meno in seimila battute. Al contrario dell’autore di Maximum City, non sono andato a visitare i locali notturni dove le ballerine nepalesi ballano le hit di Bollywood. Altri luoghi segnano la mia geografia di Mumbai: un bar in stile gotico coloniale vicino al tribunale, dove si incrociano a bere chai gli avvocati e gli inquisiti dalla giustizia indiana; l’ufficio migrazione della questura, dove ho fatto la fila per una mattina con un gruppo di profughi afgani per avere un visto; il negozio di un venditore di vecchie locandine d’epoca del cinema indiano nel «bazar dei ladri»; la stazione di Churchgate verso le 14, quando fanno ritorno verso le periferie i Dhaba-Wallah, i portatori di lunch precucinati con dozzine di gamelle portate in capo. Sono poveri e analfabeti ma hanno sviluppato un sistema grafico di simboli e colori che permette loro di consegnare svariate migliaia di pranzi negli uffici di Mumbai. I sociologi dicono che sbagliano una consegna ogni sei milioni. Una cooperativa di analfabeti che non sbaglia un colpo in una metropoli asiatica. Forse sta proprio qui il miracolo di Mumbai. Il resto, le macchine di lusso, la corruzione e gli affitti alle stelle, son cose che conosciamo bene già anche noi in Europa.