A sette giorni dallo scoop del Financial Times (“C’è una distanza materiale tra ciò che Unicredit sta presentando ora come un accordo che potrebbe funzionare, e quello che è accettabile per il Tesoro”), appare meno fosco il futuro del Monte dei Paschi, dei suoi 21mila lavoratrici e lavoratori, e degli stessi risparmiatori che in molti casi sono anche imprenditori-clienti della più antica banca del mondo. All’indomani della definitiva rottura delle trattative fra Tesoro e Unicredit, le parole del segretario dem Enrico Letta in tv a “Che tempo che fa” (“Sono convinto che ci saranno altre opzioni, Unicredit voleva una svendita”) diventano il refrain di gran parte del mondo politico. Mentre i sindacati dei bancari, Fisac Cgil in testa, tengono ferma la barra del timone, continuando a chiedere “allo Stato azionista un intervento urgente a tutela dell’integrità e del futuro di Monte dei Paschi”.
I nodi da sciogliere restano quelli di sempre: dall’impegno con la Ue per una soluzione “di mercato” entro la prima metà del 2022, all’attuale sottocapitalizzazione dell’istituto di credito di fatto nazionalizzato nel dicembre 2017 con un intervento da 5,4 miliardi, fatto che ha portato il Tesoro e detenerne poco meno del 70%. Ma sul primo punto sia gli analisti che i docenti economico finanziari si dicono sicuri che la Ue darà una proroga, perché dopo le tempeste del decennio 2010-20 il sistema bancario continentale è tornato solido. Mentre sul secondo valgono, ancora una volta, le parole della Fisac Cgil, sia nazionale che interna a Mps: “Riteniamo che debba essere affrontato e risolto il nodo cruciale della ricapitalizzazione e, attraverso la proroga dei termini concordati con l’Ue per l’uscita dello Stato, ricercate altre possibili soluzioni, improntate a una reale fattibilità e sostenibilità”.
Per la maggior parte del mondo politico, per Confindustria e, va da sé, per il governo, vanno ricercate le “soluzioni alternative di mercato”, chieste ad esempio nero su bianco dal Pd con Antonio Misiani (e con la segretaria toscana Simona Bonafè), e dal M5S . Resta dunque in minoranza chi, come Giovanni Paglia, responsabile economia di Sinistra Italiana, osserva che “non esiste soluzione di mercato per la banca, si orienti Mps al servizio di Pnrr e famiglie”.
Invece il confindustriale Carlo Bonomi lancia la palla a Draghi e al ministro Franco: “Credo che si possa affrontare la questione pensando a un terzo polo bancario”. In sincronia perfetta con le parole del presidente di Intesa Sanpaolo, Gian Maria Gros-Pietro: “Noi abbiamo sempre pensato che l’Italia meriti di avere tre poli, la Francia ce li ha e l’Italia può benissimo averli”.
Il problema è che, al momento, nessuno ha fretta di farsi avanti. Non Banco Bpm ad esempio, che anche ieri ha smentito qualsiasi interesse, e che anzi potrebbe diventare il nuovo “pensiero stupendo” di Unicredit, visti i 3,9 miliardi che in caso di fusione i due istituti potrebbero incassare, grazie agli incentivi che il governo sta per prorogare in legge di bilancio fino al giugno prossimo. C’è chi invece ipotizza Bper, ieri silente, magari con l’intervento di Unipol.
A pesare sul Monte sono i risultati dell’ultimo stress test dell’Eba, che l’hanno fatta diventare “la peggior (grande, ndr) banca d’Europa”. Questo nonostante i 200 milioni di utili nel secondo trimestre 2021, una stima di altri 200 almeno nel terzo trimestre, e un calo del deficit prospettico di capitale, stimato ad agosto in mezzo miliardo. Dati incoraggianti sulla tenuta della banca, che hanno portato l’attuale ad Mps, Guido Bastianini, dato per vicino al M5S, a preparare un piano “stand alone”, cui basterebbe una ricapitalizzazione del Tesoro e degli altri azionisti di 2/2,5 miliardi circa per evitare di finire in bocca a un pesce più grosso. E trattare, nel caso di aggregazioni, una fusione da pari a pari. Sempre naturalmente per incassare gli incentivi pubblici, che solo per il Monte sarebbero di 2,5 miliardi.
Per certo ieri a Piazza Affari, che ha chiuso in rialzo dello 0,92% a 26.815 punti, livello di chiusura più alto dal lontano 2008, la rottura delle trattative ha penalizzato sia Mps (-2,4%) che Unicredit (-1,7%), ma non certo come i catastrofisti si aspettavano.