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Mozzarella, una bufala tutta italiana

Il fatto della settimana Il 90% della produzione di latticini è tra Caserta e Salerno. Ma gli allevamenti sono diffusi in tutta Italia. Animali poco protetti, e il bio è raro

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 12 marzo 2020

Scompaiono i piccoli allevamenti e aumentano i capi di bestiame nei grandi. Secondo le statistiche di Eurostat dal 2013 al 2016, nei paesi Ue, sono cresciuti gli allevamenti con più di 500 capi e diminuiti quelli con meno di 20. Il numero di animali per ettaro raggiunge i livelli più elevati in Olanda, l’Italia risulta al tredicesimo posto. Una tendenza confermata anche nell’area della mozzarella di bufala campana Dop. Secondo Dqa, il Dipartimento Qualità Agroalimentare, ente certificatore della Dop, risultano iscritti all’elenco del Piano dei Controlli della Mozzarella di Bufala Campana Dop 1.209 allevamenti, per un totale di circa 350.000 capi. Quasi la metà degli allevamenti in questione possiedono dai 100 ai 500 capi, mentre solo il 14% possiede meno di 20 animali. Quelli che superano i 500 animali sono il 9%. Gli allevamenti presenti nell’areale di produzione, riporta l’ente certificatore, si sono ridotti di circa 400 unità, negli ultimi 10 anni. La tendenza è inversa se consideriamo, invece, il numero di animali: aumentati di circa 50.000 capi. In Italia, secondo i dati Istat, i bufalini sono passati dai quasi 370 mila del 2014 agli oltre 400.000 del 2018.

GLI ALLEVAMENTI DI BUFALE si trovano ormai su tutto il territorio nazionale, anche al Nord. Dalla Lombardia, con 6.000 capi, al Piemonte con 3.000, dal Veneto al Friuli. L’area di produzione della denominazione di origine protetta (Dop), però, comprende solo quattro regioni: Campania, basso Lazio, la provincia di Foggia e il comune di Venafro, in Molise. Dal punto di vista della produzione la maggior parte (il 90%) si concentra nelle province di Caserta e Salerno.

Il disciplinare della Dop prevede l’uso di latte di bufala proveniente esclusivamente da allevamenti nell’area. Per ottenere un chilogrammo di mozzarella sono necessari circa 4 litri di latte. La produzione si concentra in particolare nei mesi che vanno da maggio ad agosto. I tempi sono dettati dal consumo estivo, come conferma il professor Giuseppe De Rosa, Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli: «Il ritmo riproduttivo dell’animale si è dovuto adattare alla richiesta del consumatore». Questo aveva ricadute sul prezzo del latte: «Molti caseifici facevano un prezzo invernale e uno estivo». La situazione per gli allevatori è cambiata con l’implementazione della tracciabilità del latte di bufala. «Prima era il caseificio a farla da padrone, adesso sono le aziende agricole ad avere il coltello dalla parte del manico», sottolinea De Rosa. Secondo Clal, il portale di riferimento per il settore lattiero caseario, il prezzo del latte di bufala destinato alla Dop è arrivato a toccare quota 1,50 euro al litro.

NEL 2018 SONO STATE PRODOTTE più di 49.000 tonnellate di mozzarella Dop, in crescita del 5% rispetto all’anno precedente. L’export rappresentava il 32%, nel 2017. I paesi importatori sono: Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, Svizzera e Spagna. Il mercato britannico è così importante che, per tutelarsi dall’effetto Brexit, il consorzio ha registrato il marchio in Gran Bretagna, ottenendo la protezione nazionale. In Italia i maggiori consumatori di mozzarella di bufala si trovano nelle regioni del Nord, dove a farla da padrone è la grande distribuzione organizzata.

Da uno studio dello Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno)presentato a giugno del 2019 emerge che il fatturato delle imprese della filiera della mozzarella nel 2017 è stato pari a 577 milioni di euro e avrebbe generato direttamente e indirettamente un volume d’affari di 1,2 miliardi.

Cresce il consumo di mozzarella di bufala e aumentano le preoccupazioni delle organizzazioni per la protezione degli animali.

BUFALE IMMERSE NELLE LORO DEIEZIONI e nel fango fino alle ginocchia, trattamenti farmacologici somministrati senza l’ausilio di un veterinario, un cadavere di bufalo neonato nascosto sotto la paglia. Queste sono alcune delle violazioni denunciate dall’organizzazione per la difesa degli animali Animal Equality, nel video diffuso nel mese di ottobre. Oltre ad un’indagine sotto copertura in un allevamento intensivo in provincia di Brescia, Animal Equality si è avvalsa di video girati in Campania, l’ultimo nell’agosto 2018, dall’organizzazione tedesca Four Paws e delle ispezioni condotte dall’ex parlamentare Cinque Stelle Paolo Bernini dal 2013 al 2018. «Tutti gli allevamenti presenti nell’inchiesta sono destinati alla produzione lattiero-casearia e sono di grandi dimensioni, intorno ai mille capi», spiega Chiara Caprio, di Animal Equality. Non si trattava di allevamenti biologici.

L’obiettivo della campagna Una Bufala tutta Italiana, lanciata da Animal Equality, è una legge che tuteli il benessere della specie. Mancano, infatti, norme dedicate ai bufalini. «Ogni animale ha le sue caratteristiche e una legge generica non potrà mai coprire tutte le esigenze», evidenzia Chiara Caprio. «Le bufale hanno bisogno dell’acqua, di pascolare, prediligono l’ambiente umido e hanno unghioni che, se non vengono curati, crescono a dismisura e non permettono loro di camminare bene: sono tutti aspetti che andrebbero inseriti in una legge specifica», aggiunge.

A REGOLARE IL BENESSERE DEGLI ANIMALI è il decreto legislativo del 2001 che ha recepito in Italia la direttiva europea sulla protezione degli animali in allevamento: non devono provare sofferenze, dolore o lesioni inutili. Il testo è generico ed essenziale: gli addetti devono essere un numero sufficiente e preparati, gli animali feriti o malati devono ricevere cure immediate e deve essere consultato un veterinario. Esiste poi il decreto 126 del 2011 sulla protezione dei vitelli che viene applicato anche ai bufalini.

A livello nazionale, pur in assenza di una legge specifica, esiste uno schema di valutazione messo a punto dal Centro di Referenza Nazionale sul benessere animale (CRenBa), presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna, in collaborazione con il Centro di Referenza Nazionale sull’igiene e le tecnologie dell’allevamento e delle produzioni Bufaline (CRenBuf) dell’istituto Zooprofilattico del Mezzogiorno. Le aree che vengono valutate vanno dalla gestione aziendale alla formazione del personale, dalle strutture alla pulizia degli ambienti e degli animali. Tra i parametri inseriti nelle schede di valutazione ci sono anche: la deformazione degli unghioni, lo stato di nutrizione, le lesioni cutanee, la mortalità dei vitelli e le mutilazioni. L’ente esegue valutazioni nelle aziende, su richiesta degli allevatori. Lo scopo è evidenziare le criticità e suggerire miglioramenti. «Per quanto concerne le aziende che gli allevatori ci hanno richiesto di monitorare, i dati sono incoraggianti e mostrano un livello crescente di attenzione verso la tematica», spiega Domenico Vecchio, dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno. Secondo lo studioso di benessere bufalino sono due i fattori che spingono gli allevatori ad una maggiore sensibilità: «Il ricambio generazionale e la crescente attenzione da parte dei consumatori». L’ente organizza corsi per «ripensare gli allevamenti nell’ottica del One Health, un concetto che abbraccia la tematica del benessere animale così come la biosicurezza, l’impatto ambientale e l’uso consapevole del farmaco».

POCHI CONTROLLI E POCO ACCURATI. È la denuncia di Animal Equality rivolta alle autorità preposte, che secondo la legge sono il Ministero della salute e le autorità sanitarie locali. Nel Piano Nazionale Integrato 2015-2019 vengono riportati i dati del quadriennio precedente (2011-2014) che prevedevano il controllo del 15% degli allevamenti bufalini. «I controlli sono insufficienti», sottolinea Chiara Caprio: «Spesso chi si occupa di benessere deve verificare anche: la struttura dell’allevamento e l’impiego di farmaci». «Per essere più efficaci i controlli dovrebbero essere sempre a sorpresa», aggiunge.

Spesso chi viola le disposizioni di legge viene punito con sanzioni amministrative. Il veterinario, in base alla gravità della violazione riscontrata, può erogare anche sanzioni penali, in caso di maltrattamenti animali. Proprio su questo punto si batte Animal Equality, che chiede pene più severe: «È molto difficile che un allevamento chiuda o che un proprietario venga interdetto». Secondo l’organizzazion,e l’intento è favorire la messa in regola dell’allevatore.

NELL’ALLEVAMENTO BUFALINO, come in quello dei bovini da latte, gli animali maschi vengono considerati un problema. Mentre i vitelli bovini vengono cresciuti e destinati alla produzione di carne, i piccoli di bufalo vengono spesso mandati al macello in tenera età, appena superano i 10 giorni. Secondo i dati Istat sul totale dei bufalini macellati nel 2017 quasi il 60% erano ancora vitelli. La percentuale è scesa leggermente nel 2018 al 55%. L’anagrafe nazionale zootecnica riporta 5.500 bufali tra gli zero e i sei mesi morti in stalla nel 2019. Non si sa quanti di questi fossero maschi.

«Il tentativo di far riconoscere l’IGP del vitellone bufalino non è andato in porto», afferma De Rosa. Il problema, secondo il professore, è la mancata valorizzazione commerciale della carne, che rimane una nicchia di mercato. I costi di allevamento, inoltre, sono più elevati di quelli dei bovini, perché i bufali crescono più lentamente. Sono poche le aziende con le due filiere: latte, carne e salumi.

Il disciplinare Dop prevede la divisione della stalla in tre aree: alimentazione, movimento, riposo. La zona di riposo deve avere spazi collettivi e cuccette individuali, separate da muretti o ringhiere metalliche, mentre la zona di movimento generalmente è all’aperto, recintata e parzialmente coperta da una tettoia che ripari dal sole. «Gli allevatori che forniscono il latte di bufala da cui si ricava la mozzarella Dop, sono controllati e assistiti in tutte le loro esigenze», sottolinea il direttore del Consorzio di tutela Pier Maria Saccani, in una nota. «Abbiamo introdotto volontariamente il sistema classyfarm (categorizza l’allevamento in base al rischio in ambito di sanità pubblica veterinaria, ndr) e la check list del nostro organismo di controllo è stata implementata anche per gli aspetti zootecnici», aggiunge. «Il consorzio sta investendo anche nella formazione», spiega il direttore: «Nel 2017 è stata creata la prima Scuola di formazione lattiero-casearia del Mezzogiorno, per affiancare ogni anello del comparto e i tanti giovani che si stanno avvicinando ancora oggi al settore bufalino. Il programma dei corsi prevede iniziative dedicate al benessere animale e alla biosicurezza, con docenti universitari e rappresentati delle istituzioni, per aumentare sempre più la sensibilità su un tema cruciale per il futuro del comparto».

NONOSTANTE LA CRESCITA DEL BIOLOGICO in Italia e all’estero, sono ancora un’esigua minoranza gli allevamenti di bufale in regime bio. Tanto che il Sistema di informazione Nazionale sull’agricoltura biologica nell’analisi sul 2019 non inserisce i capi bufalini. Se consideriamo la regione Campania, in cui si concentrano le aziende zootecniche di bufale, nel registro regionale dedicato alle produzioni biologiche gli allevamenti bufalini non compaiono tra le categorie, ma cercando tra i produttori di mozzarelle sono state inserite nel registro regionale solo due realtà.

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