La tanto famigerata «crisi» che sta imperversando nei paesi occidentali non è certo solo di carattere economico: essa investe innumerevoli aspetti della società, da quelli ecologici fino a quelli culturali e psicologici. Per superare tale crisi occorrerebbe «uscire dall’economia», abbandonare la «sovrastruttura» di carattere economico che, dappertutto nei paesi cosiddetti avanzati, sovrasta e racchiude la forma mentis degli individui. Se, quindi, intendessimo capire come fare per iniziare a sottrarci all’onnipresente occhio della «Grande Economia» che, un po’ come il «Grande Fratello» di orwelliana memoria, ovunque ci scruta e ci controlla, probabilmente ci potrebbe essere utile il recente e ben congegnato volume Uscire dall’economia, a cura di Massimo Maggini (Mimesis, pp. 118, euro 5,90) che raccoglie gli interventi di Anselm Jappe e Serge Latouche (tradotti da Maggini e da Riccardo Frola) svoltisi in occasione di un incontro al «caffè dei decrescenti» nel maggio 2011 a Bourges, nella Francia centrale.

Il volume pone una di fronte all’altra due interessanti correnti di pensiero, la Critica del valore (la tedesca Wertkritik, i cui più noti esponenti, oltre a Jappe, sono Robert Kurz, recentemente scomparso, del gruppo Exit, Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff del gruppo tedesco Krisis, Lorenz Glatz del gruppo austriaco Streifzüge) e la «decrescita», il cui padre putativo è lo stesso Latouche, un movimento di pensiero che si oppone allo sviluppo e alla crescita economica. I due interventi che, come nota il curatore, mantengono nella traduzione l’immediatezza e il vigore del parlato, sono seguiti dalla trascrizione del dibattito che segue la conferenza, il quale – osserva ancora Maggini – «può essere letto quasi come una FAQ su decrescita e critica del valore». Leggendo il libro è come se la sala del «caffè dei decrescenti» di Bourges si materializzasse davanti ai nostri occhi, e la lettura divenisse ascolto e partecipazione.

Prende quindi la parola Serge Latouche ponendo l’accento su come il nostro immaginario collettivo sia dominato dall’economia; tutti i problemi della nostra società vengono visti sotto la forma economica, la realtà viene da noi percepita «attraverso il prisma dell’economia» a tal punto che si può affermare che «la nostra religione, al momento attuale, è l’economia»: oggigiorno non sono le chiese a dominare le città, ma le banche. La nostra società, secondo Latouche, può essere definita come una «società totalitaria della penuria», perché «non c’è niente di peggio dell’austerità in una società del consumo».

Anselm Jappe, nel suo intervento, afferma che «la società capitalista non è un fatto esclusivamente mentale» («nella società dove regna il feticismo della merce, l’economia, alla fine, è diventata reale»), e sottolinea poi come l’origine del capitalismo sia legata ad un’economia di guerra perché il soldato fu il primo salariato del mondo moderno («lo Stato all’inizio è una banda armata»; e, si potrebbe aggiungere, non solo all’inizio: basti pensare alla forte presenza della guerra all’interno delle odierne dinamiche economiche degli stati). Come, perciò, uscire dall’economia? È necessario, per Jappe, liberarsi dalle categorie che ne delimitano il perimetro: il lavoro, il denaro, il valore.

È, quindi, la sottomissione a tali categorie, non ultimo il lavoro, a essere attaccata, in definitiva, sia da Latouche che da Jappe; una sottomissione da cui, secondo i due pensatori, dobbiamo liberarci per tentare di uscire dall’economia e dalle sue logiche che dominano la nostra quotidianità: non sarebbe perciò sufficiente una mera rivoluzione economica, ma servirebbe anche una vera e propria rivoluzione antropologica, un vero e proprio cambiamento nel modo di pensare e di rapportarsi alla realtà quotidiana. Uscire, insomma, da quel sistema che già nel 1714 auspicava Bernard de Mandeville quando, nella sua Favola delle api, scriveva che, per il capitalista, «la ricchezza più sicura consiste in una massa di poveri laboriosi». Una frase che, per nostra sfortuna, suona terribilmente attuale.