C’era una volta l’indie, il non-genere per eccellenza. Un insieme comprendente elementi legati da proprietà più contrattuali che stilistiche: affiliazione a piccole etichette, autoproduzione, importanza del circuito live. L’idea di Km 0 applicata alla distribuzione musicale, perché l’artista possa crescere e svilupparsi senza la pressione del risultato commerciale immediato. Ma anche in quella particolare teoria degli insiemi si è giunti dapprima alle intersezioni e poi alle inclusioni nel grande contenitore del pop e delle major, per le quali l’attuale leva cantautoriale ex indie rappresenta la più credibile alternativa di consumo a trap e derivati. Roma è di nuovo centro di gravità, con figure come Riccardo Sinigallia a fare da ponte tra la seconda generazione (Gazzè-Silvestri-Fabi) e la terza, quella dei Paradiso e dei Calcutta, quella dei Colapesce e Dimartino (che tanto la amano, la scuola romana).

PARADIGMA di tale metamorfosi è la vicenda artistica di Francesco Motta, con la sua migrazione dal rock indipendente dei Criminal Jokers alla carriera solista targata Sugar. Premio Tenco all’esordio, con lo stesso Sinigallia padrino di produzione, doppietta per il secondo album, Vivere o morire (2018), realizzato a New York con Taketo Gohara. Che poi l’ha sempre detto, Motta: «Non chiamatemi indie, non so neanche quale sia il significato di quella parola, io scrivo canzoni». Canzoni con cui fa autoanalisi, ed è questa una delle poche tendenze sostanziali ad accomunare il vasto insieme itpop, cartina di tornasole di un disagio generazionale che, depurato da ogni istinto sovversivo, fa anche tendenza. «Devo ricordarmi tutti i motivi che mi hanno spinto a fare questo mestiere», aveva dichiarato dopo la fine del tour 2019 — con l’evento intitolato Per l’ultima volta (a saperlo…) — annunciando la pausa da cui sarebbe nato questo nuovo album, Semplice.

UN LAVORO ANTICIPATO dal singolo E poi finisco per amarti, scritto con Pacifico e accompagnato dal video diretto da YouNuts, sintomatico dell’esigenza di sublimare la dimensione live — così essenziale per un musicista formatosi come busker — in un disco di grande schiettezza sonora. Il lessico familiare dell’artista, rispetto ai lavori precedenti, è maggiormente coniugato al futuro, pur concedendo ancora spazio alla nostalgia, come è evidente in Via della Luce. Anche se il linguaggio musicale non si discosta troppo da quello dei lavori con Sinigallia e Gohara.
La maturità si misura in corde vocali, impatto sonoro, autonomia produttiva (per la quale il cantautore ha ben presenti gli insegnamenti degli ex collaboratori). La forma bipartita della maggior parte dei brani è tutta un alternarsi di vuoti e pieni, con arrangiamenti ponderati e contributi di artisti internazionali, come il percussionista Mauro Refosco e il bassista Bobby Wooten, vecchie conoscenze di David Byrne. Semplice ripropone i maggiori riferimenti di Motta, dalla new wave (Quello che non so di te), a Lou Reed (A te).
Fin qui nulla di nuovo. Ma poi arriva Qualcosa di normale che, riecheggiando Il signor Hood e Le storie di ieri, è davvero a un passo dal De Gregori di Rimmel: anche questo è emblematico del nuovo corso itpop, che va a riscuotere le eredità dei progenitori. Salti di generazione e di campo: la musica italiana ne è piena.